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Silvio Berlusconi, ecco come il Cav entrò nella storia degli Stati Uniti

Corrado Ocone
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Definirlo storico non è esagerato. Il discorso che Silvio Berlusconi pronunciò davanti al Congresso di Washington il primo marzo del 2006, calorosamente accolto e applaudito dai membri di quella assemblea, si staglia unico nella storia dei rapporti dei leader italiani con gli Stati Uniti. Ed è un discorso che né allora né oggi nessun altro leader europeo avrebbe più la forza di pronunciare, tanto più se progressista. Non è stata perciò solo la damnatio memoriae che la sinistra vuole imporre alla figura del Cavaliere a muovere gli attacchi a Giancarlo Giannini, che ha accettato l’invito a leggere quel discorso alla convention di Paestum.

A livello più profondo, e forse inconscio, a muovere quegli attacchi sono gli echi di quelle parole che giungono fino a noi, destando ancora oggi scandalo in una sinistra percorsa da forti conati antiamericani e antidemocratici. Non si tratta solo delle parole nette e chiare con cui Berlusconi mostrava gratitudine al Paese che, con un tributo non indifferente di sangue, aveva aiutato l’Europa a vincere prima nazismo e fascismo e poi il comunismo sovietico (battaglie che non vanno disgiunte) e l’italia aa vincere la povertà e a conseguire crescita e prosperità dopo la seconda guerra mondiale grazie alla generosità del Piano Marshall». 

 

 

 

E non si tratta nemmeno solo dell’inno altissimo e assolutamente non retorico che Berlusconi elevò in quella occasione alla democrazia. Ciò che conteneva quel discorso, che come pochi altri nella storia sapeva unire le corde del cuore ai nervi del cervello, era una visione precisa dei rapporti internazionali, e soprattutto di quelli fra Stati Uniti ed Ue. Una idea di Europa che delineava con precisione l’orizzonte ideale e pratico in cui quest’ultima avrebbe dovuto muoversi per avere un senso. Se i leader di Francia e Germania si erano in quegli anni disimpegnati dalla guerra che Bush aveva portato al terrorismo internazionale, Berlusconi affermava senza perifrasi che «una concezione dell’unità europea improntata ad una velleitaria autosufficienza sarebbe moralmente sospetta e politicamente pericolosa». Di qui la necessità di «sostenere e rinvigorire l’Alleanza Atlantica, l’alleanza che per più di mezzo secolo ci ha garantito la pace nella libertà». Berlusconi si spinge fino ad immginare un’alleanza delle democrazie, esigendo che i Paesi occidentali operino «con determinazione affinché ovunque l’apertura al libero mercato si accompagni al rispetto dei diritti dell’uomo». Che è il contrario di quanto è stato fatto con la Cina. Con spirito visionario, il Cavaliere prevede anche una imminente e «fortissima pressione migratoria» dei paesi poveri sull’Occidente. E come unica soluzione intravede un nostro forte intervento «per far uscire questi Paesi dalla miseria e avviarli verso il benessere». Un processo che, nella sua visione, è tutt’uno con «il buon governo, il rispetto dei diritti umani e un’economia di libero mercato». Chi oserebbe negare che la battaglia di libertà che deve compiersi oggi sia ancora quella a cui richiamava Berlusconi in quel suo epico intervento? 

 

 

 

 

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