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I senatori a vita e l'idea del potere ai sapienti

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Corrado Ocone
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Il ddl di riforma costituzionale preparato dal governo Meloni prevede la cancellazione dell’istituto dei senatori a vita, che, come è noto, sono nominati dal presidente della Repubblica per meriti acquisiti nelle loro attività. L’articolo della Costituzione che li prevede (il 59) è stato oggetto anche in passato di riflessioni e polemiche, sia in merito alla sua corretta interpretazione sia perché spesse volte il voto dei senatori avita è stato determinante nell’approvazione di provvedimenti importanti o addirittura nel voto di fiducia a un governo.

Per quel che concerne il primo punto, la contesa ha riguardato il loro effettivo numero, che la Costituzione prevede in cinque ma senza ben specificare se ogni presidente ne può comunque nominare tanti indipendentemente dal loro numero complessivo oppure se devono essere cinque in totale. Sciolto in senso restrittivo questo nodo con una legge di tre anni fa, sul tappeto è rimasta la questione più generale della ratio di questa figura. Le domande che ci si deve porre sono essenzialmente due: che senso aveva avuto l’introduzione in Costituzione dei senatori a vita? E quel senso permane ancora oggi?

 



Per rispondere alla prima domanda, è opportuno andarsi a rileggere gli atti della Costituente in cui si discusse l’argomento. Una parte dei deputati, consapevole dell’irrazionalità di un “bicameralismo perfetto”, proposero di fare del Senato una assemblea rappresentativa delle forze economiche e sociali (come sarà poi il Cnel). Questa ipotesi non passò perché la più parte dei costituenti, ritenendo che la Repubblica dovesse differenziarsi nettamente dal fascismo, non volevano replicare l’esperienza del regime che aveva trasformato il Senato regio in una Camera dei fasci e delle corporazioni. D’altronde, era la stessa paura dell’“uomo solo al comando”, per più versi anch’essa irrazionale, che li faceva optare per moltiplicare quanto più possibile i poteri, anche quello parlamentare, a costo di creare due “camere fotocopia” o quasi.

Proprio per evitare che il Senato fosse una copia perfetta della Camera, si studiarono piccoli accorgimenti ad hoc. Fra di essi è da annoverare la presenza nella Camera alta di «cittadini che hanno illustrato la Patria per altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario». Una figura spuria la loro perché, nonostante non siano eletti ma nominati, hanno tutto il potere di un qualsiasi senatore, e per di più a vita. Il deputato che preparò l’emendamento che introdusse il comma relativo, il dc Alberti, parlò senza perifrasi di una «limitata deroga al principio di sovranità popolare» riservata «ai sommi, ai geni tutelari della patria». Lasciando stare i dubbi, che pure sorgono, sulla corrispondenza di molti dei successivi senatori a vita al profilo allora delineato, il punto che va sottolineato è che qui, seppure in nome di un nobile ideale, si contraddice non uno qualsiasi, ma proprio il primo degli articoli della nostra Costituzione: quello che, affidando la sovranità al popolo, fa dell’Italia una democrazia, cioè un regime ove tutti godono degli stessi diritti politici di voto attivo e passivo. Più in generale, qui sembra affiorare un vecchio pregiudizio antidemocratico, quello per cui i cittadini debbono essere in qualche guidati dai competenti perché, essendo ignoranti, possono sbagliare.

Quel pregiudizio elitistico, per cui a governare deve essere chi possiede la conoscenza, non era probabilmente ancora stato superato in quegli anni. Ma, a ben vedere, non lo è stato nemmeno dopo, tanto che è riaffiorato periodicamente con la richiesta di dare il potere agli esperti o, come si dice, ai “tecnici”. È un’idea che ha percorso come un fiume carsico anche le ideologie politiche della Repubblica, a cominciare da quella azionista: si pensi a Norberto Bobbio (che sarebbe anche lui diventato senatore a vita) che parlava di una melior et senior pars a cui affidare il potere. Che l’idea epistocratica, come pure si chiama, sia sbagliata, oltre che antidemocratica, è evidente, in teoria come in pratica. In teoria, perché, come ci ha insegnato Hayek, la conoscenza necessaria alle cose pratiche è diffusa e nemmeno il più dotto degli uomini può dire di possederla tutta e per conto degli altri (ognuno sa meglio degli altri cosa è bene per sé). In pratica, perché la storia ci insegna che ogni volta che gli intellettuali o i colti sono andati al potere hanno combinato un bel po’ di pasticci. L’utopia platonica del re-filosofo si è cioè trasformata quasi sempre in una distopia. I nostri senatori a vita sono stati evidentemente tutt’altra cosa da questi esempi estremi, ma il principio a cui risponde la loro esistenza è lo stesso. Bene è quindi superare una volta per tutte ogni equivoco con la cancellazione di questo vetusto istituto. 

 

 

 

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