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I dubbi sul premierato e il rischio di autogol

Fausto Carioti
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Dire che è stata raggiunta un’intesa di massima sulla riforma che consentirà agli italiani di eleggere il premier, ma manca ancora l’accordo sui poteri che costui avrà nei confronti del parlamento, è come dire che un’intesa ancora non c’è. È del “cuore” del premierato, infatti, che stiamo parlando: se questo aspetto non è definito, la concordia sul resto significa poco. A maggior ragione perché del “resto” non fa parte l’altra novità importante, ossia la legge con cui si andrà a votare: non è ancora stata discussa, sarà scritta nei prossimi mesi, e quindi al momento non si sa come funzionerà il premio di maggioranza «su base nazionale» previsto (senza numeri né dettagli) nella nuova versione della Costituzione, né se si voterà in un solo turno o ci sarà un ballottaggio come per l’elezione dei sindaci (sarebbe un cambiamento epocale).

 


Che la situazione sia complicata, lo confermano la tensione raggiunta nella discussione di giovedì sulla cosiddetta norma “anti-ribaltone” tra il ministro meloniano Luca Ciriani e il capogruppo della Lega, Massimiliano Romeo, e le parole dette ieri dal senatore di Fdi Marcello Pera riguardo alla bozza stesa al termine di quella riunione: «Questo non è premierato, è solo un pasticcio, spero che Meloni e gli altri leader lo riscrivano. Questa norma anti-ribaltone è un enorme passo indietro». A questo punto, infatti, solo un giro di telefonate tra Giorgia Meloni, Matteo Salvini e Antonio Tajani può sciogliere il nodo. Questione di ore, dicono. In ogni caso la quadra andrà trovata prima delle 12 di lunedì, quando in commissione Affari costituzionali scadrà il termine per la presentazione degli emendamenti alla proposta di legge originaria, scritta a novembre e subito rivelatasi bisognosa di modifiche. Facile che la trattativa si allarghi alla possibilità di un terzo mandato per i governatori delle Regioni, che la Lega vuole introdurre, ma trova un ostacolo in Meloni e il suo partito.

 

QUELLO CHE NON TORNA Raccontano che anche alla presidente del consiglio quella bozza non piaccia. Fosse così sarebbe una buona notizia, perché in quei cinque articoli c’è qualcosa che non torna. Riassumibile in una frase: non si capisce perché gli italiani dovrebbero andare ai seggi per eleggere un premier, se poi il parlamento (o meglio una parte della maggioranza) può liberarsene facilmente, per insediare un capo del governo non eletto dal popolo, che nei confronti dei parlamentari sarebbe assai più forte di chi si è guadagnato quel posto vincendo le elezioni. Intanto, il testo non prevede che il candidato premier più votato dagli italiani sia automaticamente colui che guiderà il governo. Gli elettori, infatti, decidono chi avrà dal presidente della repubblica l’«incarico» di fare il premier, il quale poi dovrà vedersela subito con le Camere «per ottenerne la fiducia».

 

La legittimazione delle urne, dunque, non basta: il premier «incaricato» dovrà scendere a patti con i partiti della maggioranza e fare una squadra di ministri che accontenti tutte le componenti della coalizione, altrimenti non avrà la fiducia del parlamento. Questo assegna anche alle formazioni più piccole un forte potere di condizionamento. In altre parole gli elettori, più che eleggere un premier, lo “propongono”: da quel momento, compromessi e ricatti non saranno molto diversi da quelli visti sinora. Non basta: rimuovere questo premier sarà relativamente facile, e per alcuni anche conveniente. La bozza, infatti, prevede che «in caso di revoca della fiducia, mediante mozione motivata da parte di una delle due Camere», il presidente del consiglio si dimette oppure propone lo scioglimento del parlamento al capo dello Stato, che quindi avvia l’iter per tornare alle elezioni. Giusto così: il premier eletto dal popolo, sfiduciato dai parlamentari con apposita mozione, deve avere il diritto di sottoporsi di nuovo al giudizio degli italiani.

 


Nulla è specificato, però, nell’altro caso di rottura del rapporto fiduciario tra governo e Camere: quello in cui il governo “mette la fiducia” su un provvedimento, come avviene ormai con cadenza settimanale, e questa fiducia non è concessa, ad esempio perché un partito della maggioranza ha deciso di fare uno “scherzetto” e tenere una decina di suoi parlamentari fuori dall’aula. In quest’ipotesi, il premier non ha il potere di chiedere al Quirinale di sciogliere le Camere. Che succede, allora? Che il presidente della repubblica può assegnare l’incarico di formare un nuovo governo a «un parlamentare che è stato candidato in collegamento al presidente eletto». Ovvero a un altro esponente della maggioranza.

 


RAPPORTI DI FORZA Così due situazioni apparentemente identiche – quella del governo sfiduciato con mozione da una Camera e quella di una Camera che nega la fiducia al governo su un provvedimento – sono regolate in modo molto diverso. E nel secondo caso al premier scelto dagli italiani ne può subentrare un altro. Magari quello che volevano insediare, senza passare per il suffragio popolare, i parlamentari della maggioranza che hanno fatto lo “scherzetto”. Anche chi dentro Fdi difende la bozza, come il presidente della commissione Affari Costituzionali Alberto Balboni, riconosce che il problema non è risolto: «C’è differenza fra una mozione di sfiducia e un mancato voto di fiducia su un provvedimento sul quale il governo ha posto la fiducia? Per alcuni sì, ma per molti costituzionalisti no, quindi, a questo punto, non è più un tema politico da chiarire, è un tema giuridico».

 

La questione è anche politica, in realtà. E inevitabilmente riguarda i rapporti di forza tra il partito che oggi esprime il presidente del consiglio e gli altri. Non aiuta il fatto che il premier subentrante, così come previsto dalla riforma, avrebbe in mano un’arma che il primo non ha. Nel caso in cui il premier “non eletto” fosse sfiduciato dal parlamento, infatti, si andrebbe dritti al voto. Senatori e deputati, se non vorranno perdere lo scranno, avranno quindi un ottimo motivo per votargli tutti i provvedimenti. A differenza che al suo predecessore, nonostante questo fosse stato scelto direttamente dagli italiani. C’è ancora da lavorare, insomma.

 

 

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