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Ugo Intini, vi racconto il mio amico di battaglie e di vita

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Ugo Intini

Francesco Damato
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Ugo Intini, morto a 82 anni nella sua Milano, dove tutto era cominciato politicamente per lui nella redazione locale dell’Avanti!, è stato per me più di un amico. Quasi un fratello. Abbiano condiviso simpatie e antipatie, politiche e umane. Pensare di non poterlo più incontrare né sentire mi sembra un’assurdità, una cattiveria: vi giuro, avrei preferito precederlo nel ritorno al padre, come si dice quando si muore. Ci conoscemmo quando, lasciato Il Giornale ancora diretto da Indro Montanelli, dove avevo lavorato dalla fondazione, lui mi telefonò per passarmi Bettino Craxi, in difesa del quale avevo rotto con quel mostro sacro del giornalismo che era Montanelli. Eppure Craxi, passatomi al telefono da Intini, mi rimproverò di essere stato intempestivo perché in quel momento, prima delle Politiche del 1983, non avrei trovato un posto. E quando gli comunicai, dopo qualche settimana, che un posto l’avevamo già trovato nel gruppo editoriale di Attilio Monti sia io che Bettiza, che aveva solidarizzato con me lasciando pure lui Il Giornale, disse laconicamente: «Monti è vecchio e non so cosa ne sarà dopo dei suoi giornali». Non proprio un augurio di buon lavoro.

Con Intini, dopo quella telefonata, cominciò un’intensa frequentazione. Che, scoppiata Tangentopoli, diventò anche rischiosa. Usciti una volta da Euclide, un bar vicino alle nostre abitazioni romane, ci vedemmo quasi investiti da una moto con due giovanotti che ci gridarono «ladri». Per dare l’idea di che tragedia politica e umana, fosse stata Tangentopoli, racconterò una telefonata ricevuta da Intini una sera alla direzione del Giorno, nel maggio 1992. Ugo mi chiese con molto garbo come avessi deciso di uscire con le notizie diffuse dalle agenzie sulle indiscrezioni che volevano Craxi coinvolto nelle indagini.

 

 

Gli risposi che sarei uscito con un titolo a metà della prima pagina sulla smentita ufficiale della Procura di Milano. Che peraltro mi era stata anticipata da Antonio Di Pietro in un incontro occasionale avuto nel pomeriggio in Piazza della Scala, nel quale il pm aveva tenuto a precisare che nessun elemento contro Craxi era contenuto nelle carte inviate alla Camera per procedere nelle indagini contro Paolo Pillitteri, il cognato, e il predecessore a sindaco di Milano Carlo Tognoli. Intini mi chiese semi avrebbe procurato imbarazzo una telefonata dal direttore dell’Avanti! Roberto Villetti, che aveva deciso di trattare diversamente il caso. Villetti mi chiamò, ma per chiedermi perché mai volessi espormi così tanto a favore del segretario del suo partito. Non gli risposi. Mi limitai a interrompere la comunicazione, come l’interessato tempo dopo, eletto deputato con l’aiuto dei comunisti, mi rimproverò nei corridoi della Camera.

Credo che Intini nel Pci di Enrico Berlinguer negli anni Ottanta fosse stato l’uomo più odiato dopo Craxi, che aveva osato sottrarre il Psi alla subordinazione voluta dal predecessore Francesco De Martino annunciando nel 1976 che i socialisti non sarebbero più tornati a governare con la Dc senza la partecipazione o l’appoggio dei comunisti.

Non solo Craxi riportò il Psi al governo con lo scudo crociato senza i comunisti ma rivendicò e alla fine ottenne Palazzo Chigi. «Una cosa», disse poi con franchezza De Martino «alla quale noi non avevamo mai neppure pensato».

 

 

Eppure Intini, nel 2006, sei anni dopo la morte di Craxi ad Hammamet, senza avere mai rinnegato nulla di ciò che aveva scritto e detto, si sarebbe sentito offrire dal titolare della Farnesina Massimo D’Alema l’incarico di viceministro degli Esteri nel secondo governo Prodi, E Bobo Craxi, il figlio di Bettino, la carica di sottosegretario con la delega della rappresentanza presso le Nazioni Unite. Parlo di D’Alema: lo stesso che era stato presidente del Consiglio all’epoca della morte di Craxi prodigandosi inutilmente perché la Procura di Milano garantisse il rimpatrio del leader socialista dalla Tunisia per ragioni di salute, mancandogli ormai pochi mesi di vita dopo un intervento non risolutivo per un tumore renale. In ospedale col piantone davanti alla porta della stanza, risposero a Milano. E Craxi preferì morire ad Hammamet, sepolto sotto una lapide in cui è scritto su sua disposizione: «La mia libertà equivale alla mia vita».

Naturalmente i rapporti fra D’Alema e Intini, e Bobo Craxi, non nacquero all’improvviso. Segni di avvicinamenti, contatti e simili erano emersi già prima della morte di Bettino. Che reagì inizialmente molto male, anche parlandomi personalmente contro Intini. Del quale era appena uscito uno dei tanti libri scritti dopo Tangentopoli: «troppo lungo», mi disse a tavola cenando con la moglie, la segretaria Serenella e altri ospiti. Io gli dissi che era ingeneroso e gli feci presente che avrebbe dovuto diffidare non di Intini ma di chi gli ostentava rumososamente amicizia ma gliene aveva fatte di tutti i colori negli anni del governo. E gli feci alcuni nomi abbastanza altolocati. Bettino per stizza lasciò la tavola prima che la cena finisse, ingoiando in fretta le pastiglie passategli dalla moglie e andandosene a letto. Il giorno dopo c’incontrammo di prima mattina nel cortile di casa per il saluto prima della mia partenza. Bettino era ancora in pigiama. E, mettendosi la testa fra le mani seduto ad una panca, pianse dicendomi: «Salutami tutti quelli che ritieni siamo i miei amici». Pianse anche Ugo quando glielo raccontai. 

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