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Disinformazione e ideologia: se i cacciatori di bufale sono tutti di sinistra

Luigi Curini
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Parole come fake-news e disinformazione sono diventate tra i fenomeni sociali e comunicativi maggiormente studiati e discussi in questi ultimi anni, sia nella letteratura scientifica che sui media, almeno a partire dalla Brexit e dalla vittoria di Donald Trump nel 2016, eventi politici che molti, sorpresi a dir poco dai risultati delle urne, hanno collegato (a dir la verità in modo sovente bizzarro) per l’appunto alla pervasività dei fenomeni di cui sopra. Non sorprende allora che il World Economic Forum abbia recentemente identificato nelle fake-news e nella disinformazione niente meno che la principale minaccia globale da affrontare nei prossimi anni, financo prima di quei cambiamenti climatici su cui le varie svolte green dovrebbero essere basate.

Simmetricamente a questo crescente interesse (e preoccupazione), abbiamo anche assistito al boom dei cosiddetti fact-checker, ovvero di chi si incarica (di sua iniziativa o finanziato da altri) di appurare quali notizie siano vere, e quali no. Assumendo ovviamente che le persone deputate a tale lavoro siano oggettive e neutrali. In caso contrario, la cura rischierebbe di trasformarsi in qualche cosa di decisamente peggiore della malattia che pretenderebbe di curare. In questo senso, è particolarmente interessante una ricerca recentemente pubblicata da Harvard che mostra i risultati di una serie di interviste effettuate a 150 tra i massimi esperti accademici proprio di fake-news e disinformazione.

 

 

 

ROSSI ALL’84%

Ora, al di là delle risposte di queste esperti (che sottolineano ad esempio l’importanza di una maggiore regolamentazione dei social media da parte delle varie autorità pubbliche – un termine alto che però puzza di “censura”), spicca un altro dato: la loro collocazione ideologica. In una nota in appendice della ricerca si scopre infatti en passant che l’84% di questi esperti si dichiara di sinistra (di cui il 14% di estrema sinistra), mentre in posizione di centro-destra abbiamo solo il 7% degli intervistati. Una percentuale che scende ad un rotondo 0% se consideriamo le posizioni di destra.

Certo, si potrebbe sempre sostenere che la posizione ideologica non dovrebbe contare nell’influenzare l’avalutatività del proprio lavoro, e quindi non ci sarebbero problemi a questo riguardo. Peccato che dagli studi del grande sociologo e filosofo tedesco Max Weber in poi, il dibattitto sulla tensione tra giudizi di fatto e di valore è un dato di fatto, certificato da una molteplicità di analisi. Potremmo infatti essere ragionevolmente certi che nella misura in cui una fake-news sostenga idee o valori di destra, questo insieme di esperti sarà particolarmente bravo ad identificarli. Ma che dire invece di fake-news che portano avanti idee o valori di sinistra? Non sarebbe assurdo (o financo ragionevole...) ipotizzare che questo stessi insieme di esperti potrebbe fallire nell'identificare tali notizie come tali (o comunque scegliere di ignorarle) perché coerenti con la narrazione del mondo che condividono?

 

 

 

FALSI O FUORVIANTI

Perché un conto è identificare una notizia come “fattualmente falsa”. Questo è dopotutto semplice, ma riguarda solo una minima percentuale di ciò che viene normalmente identificato come fake-news o disinformazione. Generalmente infatti si utilizza il termine “disinformazione” per classificare contenuti che non sono palesemente falsi, ma che sono comunque in un certo senso fuorvianti, ad esempio perché selezionati con cura o privi di un contesto appropriato. Il punto è che questo tipo di contenuto e di informazione è talmente pervasiva in politica, nel dibattito pubblico e sugli stessi media (mainstream o meno) che qualsiasi tentativo da parte di esperti di disinformazione di applicare un bollino di “disinformazione” o “non disinformazione” su questo o su quello sarà inevitabilmente – e problematicamente – selettivo, come recentemente notato dal filosofo Dan Williams.

Ed è proprio questa inevitabile (e insopprimibile) arbitrarietà, accentuata come visto sopra da una così marcata distribuzione ideologica asimmetrica (a sinistra), che rischia di trasformare termini quali fake-news e disinformazione in veri e propri cavalli di Troia per portare avanti una certa narrazione e per silenziarne altre, piuttosto che per migliorare la qualità dell’informazione politica e della democrazia, come i loro fautori – tra sincerità e interesse partigiano – regolarmente sbandierano. Ma non è solo una questione del loro operato. È anche una questione di percezione: siamo sicuri che la casalinga di Voghera considererà attendibile l’intervento di un esperto di disinformazione, quando saprà che tale esperto si posiziona ideologicamente assai lontano da lei? Sempre che, a ben pensarci, questo sia dopotutto un problema... 

 

 

 

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