Cerca
Cerca
+

Basilicata, la terra dei Sassi torna sotto i riflettori

Marco Patricelli
  • a
  • a
  • a

Dalla Passione di Cristo sul grande schermo alla pasionaria della sinistra sul piccolo. Elly Schlein in comune con Mel Gibson ha l’eloquio che a volte ricorda l’aramaico scelto dall’attore-regista come lingua della pellicola del 2004, e la centralità della Basilicata per una risurrezione politica illusa dal lampo della Sardegna e messa in croce in Abruzzo. La terra lucana, e non solo per i Sassi di Matera, è troppo arida per il campo largo e troppo polverosa per vedere chiaramente sullo scenario politico il matrimonio d’interesse tra il Pd e i 5 Stelle, tra proclami d’intenti e beghe di quartiere, tra strategie nazionali e tatticismi locali in stridente contrappunto. Lo scenario delle elezioni regionali è passato dal film kolossal allo psicodramma casareccio, quasi una fiction, con la genialata di lanciare la candidatura unitaria di Domenico Lacerenza e rimangiarsela nello spazio di un mattino, bruciando il medico e le sue velleità politiche.

Non è bastata la figura dell’oculista per gettare lo sguardo più lontano della prospettiva limitata delle baruffe dei capponi di Renzo, destinati ambedue a farsi tirare il collo a loro insaputa. Ordine, contrordine, disordine: il principio diplomatico vale sempre. Una telefonata allunga la vita ma Carlo Calenda o trova occupato o non trova nessuno, che è poi il problema di Elly quello di trovare a stretto termine chi rimetta in carreggiata il centrosinistra mettendoci la faccia nella corsa alla presidenza della Basilicata cominciata così male. La consolazione è che potrebbe pure finire peggio, e allora meglio tentare il barbatrucco tirando fuori dal cilindro Piero Marrese, presidente della Provincia di Matera, per segnare quello che è già stato chiamato «perimetro della coalizione».

 

 

Da campo a campetto, con l’ex terzo polo IV-Azione scisso ma attratto dal centrodestra, anche perché in politica non vale il principio decoubertiano secondo cui l’importante è partecipare. E per vincere, con queste premesse, il vessillo giallorosso appare già sdrucito, con la mannaia del deposito delle liste pronta a calare su un quadro di approssimazione, mentre il presidente uscente Vito Bardi pregusta il bis infiocchettato da Renzi e Calenda che ne hanno parlato con toni di infatuazione dopo il fallimento del concetto di «opposizione razionale». La Basilicata, svelata dai riflettori cinematografici e televisivi, illuminata dall’esperienza di Matera capitale europea della cultura, brilla della luce riflessa della tornata elettorale che pare fare bene alle regioni semidimenticate del centro-sud e che, con questo andazzo, comproverebbe pure che il Molise esiste eccome.

Roma entrò a gamba tesa nella storia della Basilicata quando Benito Mussolini con un telegramma natalizio, datato 25 dicembre 1932, decise che da allora in avanti si sarebbe chiamata Lucania, andando a riesumare l’antica denominazione. Basilicata, secondo il Duce ossessionato dallo spirito della romanità, era un nome «che andava dimenticato». Altri tempi, d’accordo, finiti i quali, esattamente quindici anni dopo, nel 1947, tutto tornò come prima, come sancito nell’articolo 131 della Costituzione. Anche quegli aspetti che facevano vergognare il regime, come la gente che viveva nelle grotte, senza peraltro far nulla per cambiare la situazione. Sulla stampa si preferiva volare alto disegnando bucolicamente i lucani «aspri come le natie montagne, candidi come il latte delle capre selvagge» e naturalmente l’imposizione era definita sulla stampa allineata come «suggerimento». E forse era suggerito pure il nome di Lacerenza, che però qualcuno ha interpretato come imposizione, ponendolo nella condizione di non confermare l’accettazione della candidatura e anzi di ritirarla in buon ordine prima che gli ordinassero espressamente di farlo.

 

 

Sono passati ottanta anni da quando Carlo Levi terminò «Cristo si è fermato a Eboli», da confinato in Lucania, terra che il fascismo riteneva idonea allo scopo, guarda caso al pari di Sardegna e Abruzzi. Poi la scoperta, più che la riscoperta, con Mel Gibson che ritrovò a Matera la Gerusalemme all’alba dell’era cristiana, la consacrazione internazionale con un adrenalinico e tormentato James Bond, l’attesa del sempre rinviato boom economico con i giacimenti di petrolio finiti fuori moda con la febbre green della transizione ecologica. Amara Matera nell’antipasto delle elezioni per Schlein e Conte divisi alla meta che ricuciono e rammendano come una volta nelle famiglie patriarcali con i corredi delle figlie femmine; una trama spiazzante anche perla rigida Imma Tataranni.

Un campo largo in una regione con l’8% di pianura è più realizzabile geograficamente che politicamente, perché è difficile mettere insieme orti e orticelli monocolturali in nome di una cultura di partito a corrente alternata tra centro e periferia e di strappi per mettere di fronte al fatto compiuto. Questo, nell’unica Regione a doppia denominazione che non ha però un’anima doppia. Il regionalismo sposato dalla Carta costituzionale, ritenuto invece da Mussolini «residuo, anacronistico e melanconico», oggi è la cartina di tornasole delle alchimie e banco delle prove di forza. Non male per un territorio che, ironia della sorte, ha per capoluogo Potenza. In Basilicata si giocano non solo le sorti della Regione ma si testa per la terza volta se ha ancora un senso creare una coalizione comunque sia solo per battere l’altra, senza dare invece vita a un’alternativa credibile con le idee e non solo con l’ideologia. E soprattutto senza sperare fideisticamente nella riproposizione della congiunzione astrale che ha fatto conquistare la Sardegna.

Dai blog