Referendum, ecco perché sono inutili

Negli ultimi dieci anni il nostro Paese è sempre stato ai primi posti per numero di stranieri naturalizzati. Dimezzare i tempi non serve a niente
di Michele Zaccardilunedì 9 giugno 2025
Referendum, ecco perché sono inutili
3' di lettura

A sentire la sinistra, sembra che si tratti di una necessità impellente. Una riforma che non può essere rimandata oltre. Al punto da farci un referendum. Dice Riccardo Magi che l’attuale legge costringe «centinaia di migliaia di ragazze e ragazzi nati o cresciuti in Italia a vivere da stranieri in quello che è anche il loro Paese». Mentre Elly Schlein afferma: «Pensiamo che chi nasce e cresce in Italia sia italiano».
Fin qui niente da dire. Anche perché ognuno la può pensare come vuole.

Epperò va detto che il quesito promosso dal leader di +Europa e sposato dalla segretaria del Pd per ridurre da dieci a cinque anni il requisito della residenza per ottenere la cittadinanza non risponde ad alcuna esigenza reale. Detto altrimenti: è frutto di una visione ideologica. Perché in Italia non c’è nessun problema con la concessione delle cittadinanze. Anzi, tutt’altro. Tant’è vero che, tra i Paesi europei, siamo ai primi posti (oscilliamo in realtà tra il primo e il terzo posto, in un testa a testa con Spagna e Germania) per numero di cittadinanze concesse ogni anno. E questo almeno da dieci anni. Facciamo persino meglio di Paesi più popolosi come la Francia (che ha dieci milioni di abitanti in più dei nostri 58) e la Germania (83 milioni).

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Ma prima di snocciolare dati su dati, facciamo un passo indietro. Come si ottiene la cittadinanza in Italia? E su cosa interviene il referendum? Il quesito numero 5 riguarda la cittadinanza italiana per cittadini extra-comunitari maggiorenni. Chiede di abrogare l’articolo 9, comma 1 della legge 91 del 5 febbraio 1992, nella parte in cui richiede un tempo minimo di residenza legale in Italia, fissato a dieci anni.

Se vincesse il sì, si ritornerebbe alla situazione precedente al 1992, quando bastavano cinque anni. Oltre al requisito della residenza, la legge prevede che il richiedente debba dimostrare di essere integrato nella società, possieda un reddito minimo, non abbia precedenti penali e conosca adeguatamente la lingua italiana. Inoltre, lo straniero può diventare cittadino italiano per matrimonio con un italiano, con tempi ridotti (due anni di residenza in Italia o tre se si risiede all’estero, con riduzioni se la coppia ha figli), oppure per jure sanguinis, ossia per nascita da genitori italiani.

Diversamente da altri Paesi, in Italia non esiste lo ius soli: nascere sul territorio nazionale da genitori stranieri non garantisce automaticamente la cittadinanza. Il minore può richiederla solo al compimento del diciottesimo anno di età, a condizione che abbia vissuto legalmente e senza interruzioni in Italia fin dalla nascita.

Detto questo, cosa dice l’Eurostat? Innanzitutto che nel 2023, ultimo dato disponibile, l’Italia ha concesso la cittadinanza a 213mila stranieri. Solo la Spagna ne ha date di più, ben 240mila, mentre Francia e Germania 97mila e quasi 200mila, rispettivamente. Negli ultimi dieci anni i valori hanno oscillato parecchio (per esempio, nel 2018 le cittadinanze concesse sono state “solo” 112mila), ma si muovono in modo sincronico: se gli stranieri naturalizzati scendono in Italia, diminuiscono anche nel resto dell’Ue; se aumentano, lo fanno pure altrove. Il risultato è che dal 2013 al 2023 l’Italia è sempre stata tra il primo e il terzo posto per numero di cittadinanze concesse.

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Il che dimostra che, se pure ci sono lungaggini burocratiche, l’iter per diventare italiani tutto sommato funziona bene. Qualche numero: nel 2013, in Italia più di 100mila stranieri hanno acquisito la cittadinanza, mentre in Germania sono stati 112mila e in Spagna 226mila. Ancora: nel 2016 i naturalizzati sono stati 201mila, contro i 151mila della Spagna e i 113mila della Germania.

Insomma, le cifre parlano chiaro. Che la legge del ’92 sia «ingiusta» come la definisce Schlein è una sua opinione che, come spesso avviene quando apre la bocca, non è suffragata dai numeri. Poi certo, a voler essere maliziosi, si può pure pensare, e l’ipotesi non è poi tanto peregrina, che il dimezzamento dei tempi per diventare italiani risponda a un’esigenza di consenso più che a un sincero afflato umanitario verso gli immigrati. Per essere brutali: a incassare voti. Perché il sospetto sorge, considerando che, tra i partiti di opposizione, l’idea che i migranti votino a sinistra è piuttosto diffusa.