Pd, parte il processo ad Elly Schlein: "Che autogol!"

Da Gori alla Picierno, piovono accuse alla segretaria: "Referendum, un autogol sposare la linea della Cgil". Caos dopo la disfatta
di Elisa Calessimartedì 10 giugno 2025
Pd, parte il processo ad Elly Schlein: "Che autogol!"
4' di lettura

Nessun bersaglio centrato. Non si è raggiunto il quorum. E non si è nemmeno superato i 12 milioni e 300mila voti ottenuti dal centrodestra alle elezioni politiche, asticella che lo stesso Pd aveva incautamente fissato per parlare di vittoria. Il tentativo, in corsa, di valorizzare i 14 milioni di italiani che, comunque, sono andati a votare, tesi rilanciata a batteria da tutti i fedelissimi di Schlein, sembra la scusa di uno studente in difetto.

La sconfitta c’è tutta. Ed è la prima volta che, nel Pd, la segretaria viene esplicitamente chiamata in causa. L’errore che le si imputa è aver puntato su una scommessa, i referendum su jobs act e cittadinanza, che era ampiamente prevedibile sarebbe stata persa. E infatti è andata così. Il quorum non è stato raggiunto. Non basta sottolineare, come ha fatto Elly Schlein, che la destra «ha fatto una vera e propria campagna di boicottaggio politico e mediatico» e comunque «di questo voto ha ben poco da festeggiare» perché «per questi referendum hanno votato più elettori di quelli che hanno votato la destra mandando Meloni al governo nel 2022». La trovata comunicativa non convince innanzitutto tanti dirigenti del Pd che, quando ancora i dati non erano definitivi ma la direzione era chiara, cominciano a tirare le fila di questa battaglia persa.

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«Aver mobilitato tutto il Partito (democratico), tutti i circoli, tutti i dirigenti su un referendum che doveva “correggere gli errori del vecchio Pd” si è rivelato un boomerang. Un referendum politico contro se stessi», scriveva su X Elisabetta Gualmini, europarlamentare dem. E parlava di “errore”, già nel primo pomeriggio, il governatore uscente della Campania, Vincenzo De Luca: «C’è stato un elemento di ideologizzazione eccessiva, che è stato sbagliato, e una politicizzazione eccessiva, ed è stato sbagliato anche questo. E c’è il problema che, quando si affrontano problemi complessi, lo strumento referendario non è quello più adatto».

Man mano che i dati arrivavano, del resto, si approfondisce la disamina, tra i riformisti, degli sbagli commessi al Nazareno. «Il primo macro-dato», osservava il costituzionalista Stefano Ceccanti, ex parlamentare del Pd, «è che l’affluenza è a meno della metà delle elezioni politiche. Del resto, voler fare un test sul governo usando leggi del centrosinistra non è molto logico. Se vuoi fare un test sul governo devi individuare leggi dell’attuale governo, non di governi guidati date». Durissimo anche Giorgio Gori che ha parlato di «un autogol prevedibile, che andava evitato. Il Pd si è infilato in una battaglia ideologica, anacronistica, troppo tecnica e quasi incomprensibile ai più, a traino della Cgil e contro la sua stessa storia.

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Una battaglia controproducente, che ha diviso il fronte progressista e il mondo sindacale. E l’ha persa senza attenuanti». Altro dato che tra i riformisti viene osservato è che il quesito sulla cittadinanza è andato peggio del previsto: i “no” hanno superato il 30%. E soprattutto nelle province, la percentuale è salita. Così come è confermata, in generale, la distanza tra centri e provincia. Segno, si diceva, che il Pd tiene nelle grandi città, ma appena fuori è estraneo al Paese reale. Anche il test sul campo “stretto”, ossia la possibilità di restringere la coalizione alla triade Pd-M5S-Avs, come qualcuno sperava, sull’onda della manifestazione per Gaza, si è rivelato sbagliato. Si è confermato che le piazze piene non corrispondono a urne piene. Il campo Pd-M5S-AVS, per dirla ancora con Ceccanti, è un campo «a vocazione minoritaria».

Sul banco degli imputati è Schlein, che ha deciso di schierare il Pd a fianco della battaglia di Maurizio Landini, peraltro (altra accusa che le si fa) rompendo con la Cisl. «Referendum sbagliati, rivolti al passato, hanno portato a una sconfitta tanto più bruciante perché tocca la questione del lavoro, identitaria per il centrosinistra», commentava Filippo Sensi, «se non si allarga, se non si parla al Paese, nella sua complessità e ricchezza e varietà, ma ci si rifugia in risposte testimoniali, minoritarie, non si va lontano». 

La dem Lia Quartapelle ha parlato di «scelta incauta» . E ancora più impietosa è stata Pina Picierno, front-women dei riformisti dem: «Una sconfitta profonda, seria, evitabile. Purtroppo un regalo enorme a Giorgia Meloni e alle destre. Fuori dalla nostra bolla c’è un Paese che vuole futuro e non rese di conti sul passato. Ora maturità, serietà e ascolto, evitando acrobazie assolutorie sui numeri». Ed è stato un errore - si dice - fidarsi della capacità di mobilitazione del M5S. Le regioni del Sud, quelle che rappresentano il bacino elettorale dei cinquestelle, sono quelle dove meno si è votato. Che fine hanno fatto, ci si chiedeva ieri nel Pd, le 120mila preferenze ottenute da Pasquale Tridico alle elezioni europee? Una domanda che suscita qualche preoccupazione rispetto alle elezioni regionali che si terranno in autunno. Peraltro in una di queste, la Campania, il candidato dovrebbe essere del M5S.

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