Anche Fabrizio Tomada, che ne fu il consigliere e segretario nell’esperienza politica, ha voluto partecipare, scrivendone sul Messaggero, alle meritate celebrazioni di Giovanni Spadolini nel centenario della nascita. E a 31 anni dalla morte, a 44 dall’approdo a Palazzo Chigi come il primo presidente del Consiglio non democristiano nella storia della Repubblica italiana. Fu due anni dopo di lui, nel 1983, che vi arrivò il leader socialista Bettino Craxi, bocciato quattro anni prima, per quanto incaricato dal presidente della Repubblica e compagno di partito di Sandro Pertini, dalla Dc. Dove, a parte Arnaldo Forlani che si astenne, la direzione democristiana non gradì. Poi Forlani ne sarebbe diventato il vice presidente a Palazzo Chigi, e Spadolini ministro della Difesa, quando un infelice risultato elettorale costrinse persino l’anticraxiano segretario della Dc Ciriaco De Mita ad accettare il segretario del Psi alla guida di un governo di coalizione. Ponendo una sola condizione compensativa: che i ministri scudocrociati fossero destinati alla metà dei posti complessivi di governo.
“Ma questa è storia passata”, tornerebbe a scrivere Tomada, che ha usato queste parole per chiudere il clamoroso, impietoso inciso che ha voluto mettere nell’articolo in memoria di Spadolini per ricordarne la mancata elezione al Quirinale nel 1992. Mentre peraltro lo stesso Spadolini svolgeva come presidente del Senato le funzioni di presidente supplente della Repubblica sostituendo Francesco Cossiga. Che si era dimesso con qualche settimana di anticipo rispetto alla scadenza del mandato, in quella che fu col solito compiacimento l’ultima “picconata” di Cossiga da capo dello Stato. In particolare, Tomada ha ricordato quando, nel 1992 appunto, Spadolini volle «financo volgere lo sguardo al più alto colle della Repubblica, ma -inutile negare i fatti o girarvi intorno con miseri arzigogoli- ci fu qualcuno nelle file di quel partito al quale fu sempre fedele che non lo appoggiò».
Quel partito era naturalmente il Pri, dove Spadolini era stato portato personalmente, dopo avere perduto la direzione del Corriere della Sera, da Ugo La Malfa. Morto nel 1979, senza poter vedere il suo amico ed estimatore arrivare a Palazzo Chigi e “volgere lo sguardo” -ripeto- al Quirinale.
Pur partecipe del ristretto “ambito istituzionale” cui la successione a Cossiga era finita per il trauma della strage di Capaci, dove la mafia con metodi terroristici aveva sterminato Giovanni Falcone, la moglie e quasi tutta la scorta; pur partecipe, dicevo di quell’ambito ristretto, con Oscar Luigi Scalfaro presidente della Camera e Giulio Andreotti presidente del Consiglio, Spadolini non potette contare né sui democristiani, interessati alla candidatura di Scalfaro, né sui comunisti, che potevano ricavare dalla elezione di Scalfaro il ritorno alla presidenza della Camera, né -ahimèsui suoi, o su tutti i suoi amici di partito, come ha rivelato, lamentato e quant’altro il suo segretario e consigliere Tomada. Che vorrei comunque consolare raccontandogli che, mentre le Camere e i delegati regionali si accingevano ad eleggere Scalfaro, lo stesso Spadolini rispondeva ad una mia telefonata di rammarico facendomi notare che dopo sette anni egli avrebbe avuto la stessa età di Scalfaro in quel momento. Insomma già pensava alla volta successiva.
Grandissimo Spadolini, che magari aveva già steso, come si vociferava nei corridoi parlamentari e anche altrove, il discorso di insediamento pensando di passare da presidente supplente a presidente effettivo. Uno Spadolini che penso di sapere con chi si sarebbe oggi schierato nel mezzo del disordine mondiale nel quale siamo entrati alla ricerca di un nuovo ordine. Si sarebbe schierato con Trump pur così lontano da lui sotto tanti aspetti, con Nethanyau, con Zelensky e, penso, anche con la Meloni. Sì, Gorgia Meloni. La prima donna arrivata alla guida del governo nella storia intera d’Italia, e non solo della Repubblica.