Era il luglio del 1974 quando Pier Paolo Pasolini scriveva sul Corriere un elogio di Marco Pannella che avrà poi nella raccolta postuma Scritti corsari un titolo fuorviante ma provocatorio: “Il fascismo degli antifascisti”. L’argomento fu in quell’estate una sorta di fil rouge che percorreva altri articoli pasoliniani: da un lato il poeta criticava l’antifascismo di maniera, dall’altro avvertiva che se il fascismo in quanto spauracchio e nemico aveva da essere individuato, esso risiedeva nel Potere e cioè nella società consumistica e omologante.
Quanto all’articolo di quel lontano luglio, riprendendo parole dello stesso Pannella, sottolineava: «Dove sono mai i fascisti se non al potere e al governo? Sono i Moro, i Fanfani, i Rumor, i Pastore, i Gronchi, i Segni e perché no i Tanassi, i Cariglia e magari i Saragat, i La Malfa». Ciò a voler significare che dove c’è potere c’è intolleranza «totalitaria». Perché l’articolo è in qualche maniera fuorviante? Perché usa la categoria fascismo con la disinvoltura denunciata dallo storico Stanley G. Payne: «Fascista è stato uno dei termini peggiorativi politici più frequentemente evocati con connotazioni abituali di violento, brutale, repressivo o dittatoriale. Ma se il fascismo non significasse niente più che questo, i regimi comunisti, ad esempio, probabilmente dovrebbero essere catalogati tra i più fascisti...».
Pasolini in quella stessa estate aveva pubblicato altri editoriali, “Gli italiani non sono più quelli” e “Il potere senza volto”. Articoli in cui accusava l’intellettualità di sinistra di non comprendere che «l’omologazione culturale riguarda tutti: popolo e borghesia, operai e sottoproletari. Il contesto sociale è mutato nel senso che si è estremamente unificato. La matrice che genera tutti gli italiani è ormai la stessa...”». Sino al passaggio più importante: «Non c’è più dunque differenza apprezzabile, al di fuori di una scelta politica come schema morto da riempire gesticolando, tra un qualsiasi cittadino italiano fascista e un qualsiasi cittadino italiano antifascista». Per i giovani fascisti additati come nemico numero uno nel clima arroventato dei Settanta, aveva uno sguardo critico che sapeva andare oltre gli stereotipi: perché rilanciare trent’anni dopo la fine della guerra e del fascismo un’offensiva antifascista invece di aggredire dalle fondamenta il nuovo potere senza volto «il cui fine è l’omologazione brutalmente totalitaria del mondo»? «In realtà – confessava – ci siamo comportati coi fascisti (parlo soprattutto di quelli giovani) razzisticamente. Non nascondiamocelo: tutti sapevamo, nella nostra vera coscienza, che quando uno di quei giovani decideva di essere fascista, ciò era puramente casuale, non era che un gesto, immotivato e irrazionale... Ma nessuno ha mai parlato con loro o a loro. Li abbiamo subito accettati come rappresentanti inevitabili del Male. E magari erano degli adolescenti e delle adolescenti diciottenni, che non sapevano nulla di nulla...».
Concetti ripresi nell’intervista concessa quello stesso anno a Massimo Fini per L’Europeo: basta, diceva, con «l’antifascismo facile facile che ha per obiettivo un fascismo arcaico che non esiste più». Se l’antifascismo del 1974 dava battaglia a un fenomeno «morto e sepolto» figuriamoci quello odierno... trattavasi per Pasolini di un antifascismo di tutto comodo e di tutto riposo.
Fin qui la polemica ancora oggi attualissima. C’era poi l’altra parte della medaglia: il vero fascismo era secondo lui la dittatura dei consumi. Alla fin fine dunque anche Pasolini non resisteva al vizio di utilizzare il fascismo come archetipo a-storico, eternizzato, da usare con connotazioni negative fuori contesto e in ogni contesto. Esattamente la tentazione, la vulgata, che impedisce una vera storicizzazione del fenomeno e in fondo favorisce proprio gli antifascisti in malafede e conformisti che Pasolini criticava dalle colonne del Corriere.