Diciamo che siamo di fronte a un caso particolarmente coerente, e quindi grottesco, di “oicofobia”. Quella malattia spirituale della sinistra radical diagnosticabile, secondo il grande filosofo conservartore Roger Scruton, come «ripudio dell’eredità e della casa», anzitutto culturale. In quest’ultimo stadio, la patologia transita dallo spirito al corpo, coinvolge anche la casa fisica, nella fattispecie un locale particolare: la cucina. Sì, la sinistra italiana ha un problema con la cucina italiana, la giudica un residuato reazionario, un inaccettabile grumo sovranista ed etnocentrico, contro cui invocare ora e sempre Resistenza. Magari a colpi di involtini primavera e spaghetti di soia, visto la predilezione del campo largo per il compagno Xi, che dal canto suo preferisce i campi di concentramento, ma non divaghiamo. La faccenda è serissima, come ha scandito Elly Schelin (risate in sala): «Giorgia Meloni continua a rifiutarsi di venire in Parlamento a spiegare cosa farà sul riconoscimento dello Stato di Palestina», mentre «ci spiega su Rai1 quali pranzi e quali pasticcini preferisce mangiare la domenica».
È la nuova battaglia civile della sinistra, contro il fascistissimo pranzo famigliare domenicale, peggio se consumato con prodotti ispirati all’autarchia gastronomica. E allora dagli esponenti M5S in Commissione di Vigilanza indignati per l’intervista sulle «abitudini culinarie» al redivivo Riccardo Magi scandalizzato per «il collegamento con tanto di tavola imbandita», è un fuoco di fila contro l’apparizione della premier a Domenica In. Poco conta che il tutto avvenisse per sostenere la candidatura della cucina italiana a «patrimonio culturale immateriale dell’Unesco». O forse no, forse la causa dell’acidità di stomaco dei compagni 5.0, abituati a consumare di fretta un tofu accompagnato da un mezzo hamburger vegano e consegnato da un rider sottopagato mentre sono impegnati in maratone social sui diritti dei lavoratori, sta proprio lì. In quel “patrimonio culturale immateriale”.
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Questa volta "le pastarelle" sono andate di traverso a qualcuno. Soprattutto alla sinistra, perché quan...Suona male, tende pericolosamente a insinuare che il cibo custodisca una storia collettiva e perfino l’identità di un popolo, tutta roba che non si può digerire nell’eterno presente ideologico dove valgono solo le paturnie Woke (Gaza su tutte, fino a controsensi sublimi come gli Lgbt per Gaza, che gastronomicamente parlando sarebbero come i vegetariani perla fiorentina). Soprattutto, tutta questa insistenza sul cibo annusata dalla nouvelle cuisine delle Ztl progressiste puzza troppo di «mondo della vita», per usare la formula di Edmund Husserl.
Rivendicare la cucina italiana significa anche tornare nelle cucine, impregnarsi di odori e sapori, condire, magari perfino mettere una salamella sulla griglia. Sarebbe come tornare alle Feste dell’Unità, al Partito dottrinario ma ancora immerso nel popolo, ancora in grado di scorgere la faticosa bellezza dietro al piatto messo in tavola: l’incubo supremo, per lorsignori (non è un’iperbole: a Bologna l’ultrascheiniano Matteo Lepore ha mosso da tempo guerra al barbecue operaio in nome della paranoia tardoborghese sulle polveri sottili). i$ la stessa ottica con cui il Pd (Partito Dietetico) imbastì una crociata linguistica contro l’istituzione della delega della Sovranità Alimentare accanto a quella dell’Agricoltura, quando fu nominato il ministro Francesco Lollobrigida.
«Che vuol dire, che metteranno fuorilegge l’ananas?», si chiese in un tentativo d’inedita spiritosaggine Laura Boldrini. No, vuol dire che, senza per forza essere dei materialisti scatenati, l’uomo è (anche) ciò che mangia, che mangiare italiano non è (solo) un’opzione su Deliveroo ma anche un fatto culturale, e che a sinistra non sono alla frutta, sono all’ammazzacaffè. Ma non alcolico, ché gli amici in kefiah non gradiscono.