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Massimo Volpe: “Molte innovazionima ancora problemi da risolvere”

Professor Massimo Volpe

Il professor Massimo Volpe, presidente della Società italiana per la prevenzione cardiovascolare (Siprec) ci parla dei temi più caldi della ricerca e della prevenzione in ambito cardiovascolare

Maria Rita Montebelli
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In occasione del convegno 'Armonizzare la ricerca e la pratica clinica per migliorare la prevenzione delle malattie cardiovascolari' a Milano negli scorsi giorni abbiamo incontrato il professor Massimo Volpe, presidente della Società italiana per la prevenzione cardiovascolare (Siprec), preside della facoltà di medicina e psicologia dell'università Sapienza di Roma, ordinario di cardiologia e direttore dell'unità operativa complessa di cardiologia dell'ospedale Sant'Andrea della Capitale. Professor Volpe, quali sono stati i temi portanti del congresso? Obiettivo del congresso è stato quello di analizzare, comprendere e armonizzare la ricerca con la pratica clinica. Molto spesso il mondo delle ricerche è lontano dal cardiologo sul territorio, quindi bisogna far comprendere cosa c'è dietro ai trial clinici. Accanto a questo c'è stato il tema della comunicazione, perché il medico svolge una funzione pubblica che lo porta ogni giorno a confrontarsi con persone diverse (stakeholder, colleghi, direttori, pazienti) ed è importante conoscere le logiche e la modalità della comunicazione. E ancora si è parlato di etica professionale, per esempio nella questione della gestione del fine vita, in cui bisogna comprendere appieno il significato della locuzione ‘accanimento terapeutico' soprattutto alla luce dell'allungamento dell'aspettativa di vita e della coincidenza sempre più frequente delle malattie cardiovascolari con quelle neoplastiche. Sono stati trattatiinoltre gli aspetti della responsabilità civile e penale del medico dopo la nuova legge, molto articolata, utile e al contempo contestata, per esempio sul tema dell'applicazione delle linee guida: non possiamo fare ex novo linee guida di riferimento su tutte le situazioni mediche – dalla rottura del femore alla rinite allergica – e occorre quindi una rivisitazione di quelle esistenti. Com'è cambiato in questi anni l'approccio alla prevenzione primaria in ambito cardiologico? La prevenzione primaria - quindi la modificazione deglistili di vita - è diventata una realtà, perché viene considerata nel modo giusto: importantissima e ormai parte integrante della prescrizione medica. Stili di vita sani da mettere in ricetta insomma, non solo da declamare. Oggi abbiamo dei farmaci che possono essere utilizzati in prevenzione primaria - a seconda del livello di rischio del paziente - per la riduzione del colesterolo, per controllare la pressione e per l'effetto antipiastrinico, come la sempreverde aspirina. Certo ci vuole criterio, anche per evitare un'eccessiva medicalizzazione, ma il medico deve conoscere gli elementi e le armi che ha a disposizione. Con una buona prevenzione primaria globale, in futuro vedere un infarto prima dei 60/65 anni sarà difficile. Credo che le prossime generazioni – a differenza della nostra esposta a stili di vita poco corretti e con minori opportunità terapeutiche – miglioreranno da questo punto di vista. Qual è l'importanza della prevenzione secondaria, di cui meno si parla e quali sono gli obiettivi della ricerca in quest'ambito? Prevenzione secondaria significa, di fatto, ‘terapia': quando un soggetto viene dimesso dall'ospedale dopo un infarto riceve una lista di sette/otto farmaci che devono essere interpretati come terapia. Generalmente si tratta di medicinali antipiastrinici, per l'ipercolesterolemia, a volte antidiabetici, molto spesso ace-inibitori e betabloccanti: tutto ciò che serve per non far andare il paziente ineluttabilmente verso lo scompenso. La sfida odierna è quella di arrivare a farmaci che svolgano più azioni contemporaneamente, ‘multitarget'. Certo, serve anche uno sforzo da parte delle aziende produttrici per comprendere le difficoltà economiche dei servizi sanitari e trovare delle forme che possano consentire al maggior numero possibile di soggetti di ricevere questi trattamenti. Anche se questo dovesse comportare poi una riduzione di spese per ricoveri? In un paese come il nostro le partite finanziaria sono diverse: chi si occupa di farmaci non si occupa necessariamente di ricoveri e viceversa. La visione globale della spesa deve avvalersi anche dell'apporto e della consulenza degli esperti, che sono i medici. Ma serve di più: un ‘concentrato' di informazioni sul paziente che ci dia la possibilità di capire non solo quanto ‘costa' ma anche qual è il suo cluster di malattia, a che cosa è esposto e che cosa sarebbe meglio che facesse. Cosa potremo fare in più per chi ha lo scompenso cardiaco? Nell'ambito cardiologico, purtroppo, lo scompenso cardiaco fa un po' la parte della Cenerentola. Ci si dimentica chenel 50 per cento dei casi un paziente con scompenso in 4° classe funzionale (quindi grave) ha una sopravvivenza attesa di solo un anno. La responsabilità di questo è sia dei medici, che dovrebbero comunicare meglio con i pazienti, sia dei media, che ne parlano poco perché lo scompenso non fa tanta notizia. Quello che va fatto è un lavoro di schedatura e di screening che consenta investire le giuste risorse per quella categoria di pazienti. Un problema molto importante non solo per i servizi sanitari ma anche per le aziende produttrici di di farmaci e device che sarà difficile permettersi in futuro, perché stanno raggiungendo costi sempre più astronomici. Cosa intende esattamente per ‘schedatura'? Credo che le informazioni che oggi sono legate ad un singolo paziente siano molto importanti. Solo in rari casi esiste una rete territoriale che fornisca dati utili ai medici e agli specialisti. Sarebbe opportuno creare la risposta a domande come ‘quanti sono i pazienti cardiologici oggi?',‘Di quante riabilitazioni cardiologiche abbiamo bisogno?' oppure ‘Di quale livello di spesa farmaceutica abbiamo bisogno per gestire lo scompenso?' Occorre una progettazione che sia basata sui dati, sia individuali che di gruppo.

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