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Vecchiaia, come abbassare l'età biologica e vivere più a lungo

Luca Puccini
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“Ma l’età non conta”. Ennò, conta eccome: solo che non è quella anagrafica, quella delle primavere passate e delle rughe attorno agli occhi. È l’età biologica che vale, però mica è detto debba per forza combaciare con la sua parente scritta nella carta d’identità. Anzi, se non lo fa, cioè se s’abbassa, se ci fa ringiovanire (e per davvero, alla faccia del mirabile liquore della cavatina di Dulcamara - non ce ne voglia quel genio di Donizetti) è pure meglio. Ce ne guadagniamo tutti: noi, per primi, che torniamo ragazzini anche dopo i famigerati “anta”; e lo Stato, che risparmia miliardi, spazza gli spedali e indirizza le proprie risorse laddove è necessario. Con più precisione, con più certezza. Con una maggiore efficacia. Si può, non è fantascienza. È solo scienza: nel senso che si tratta ancora di una sfida (d’accordo), ma che è possibile vincere «trasferendo le conoscenze medico-scientifiche (appunto, ndr) della medicina dello sport a favore del sistema socioeconomico del Paese per coniugare salute, economia e società». Urca, hai detto poco.

 

 

PRINCIPI DA SEGUIRE - Quale elisir di lunga vita, quale ricetta miracolosa, quale intruglio anti-invecchiamento: qui l’idea (che in realtà è molto di più: è, per cominciare, il 37esimo congresso della Fmsi, la Federazione medico-sportiva italiana, che si sta tenendo a Romain questi giorni, all’hotel Rome Cavalieri, col titolo “Età biologica, età anagrafica 2.0. Una longevità in salute” e che terminerà domani) è un elenco pressoché sterminato di tabelle, numeri, percentuali e cifre chelo dicono chiaro. Dicono che «è un po’ come trasportare le tecnologieacquisite con la Ferrari nella costruzione di un’utilitaria», perché tutto sommato basta prendere i princìpi della medicina dello sport a cui sottostanno da sempre gli atleti, e usarli nella nostra vita quotidiana. Saranno anche consigli prevedibili (no alla vita sedentaria, sì allo sport e all’alimentazione sana), ma il risultato è tutt’altro che scontato. «Ogni due secondi, nel mondo, una persona che ancora non ha compiuto 60 anni muore a causa di una malattia cronica non trasmissibile» spiega Maurizio Casasco, deputato di Forza Italia nonché presidente della Fmsi: siamo stati preoccupati (giustamente) per tre anni di fila dal Covid quando sono i tumori, i diabeti, il Parkinson e l’Alzheimer a mietere più vittime, non le patologie infettive. E allora che si fa? Perché, da un lato, l’Italia è uno degli Stati occidentali col più alto tasso di invecchiamento della popolazione (e, di certo, non è una novità), ma dall’altro questo sistema costa. Sia in fatto di danni alla salute sia in soldoni (ossia in termini economici).

Nel primo caso perché, per esempio, uno studio realizzato dalla Fmsi con l’università Bocconi di Milano sostiene che, evitassimo tutti uno stile di vita sedentario e facessimo più esercizio fisico, avremmo 5.867 casi di tumore al seno in meno (con annesse 719 morti, sempre in meno); che ci ritroveremo con una sforbiciata di 7.209 pazienti diabetici (661 dei quali destinati, purtroppo, a non farcela); che anche le malattie ischemiche del cuore subirebbero un ribasso di 34.728 (ei decessi connessi di altri 2.704). Nel secondo caso, quello del portafoglio, perché il costo medio procapite del cancro al seno o del diabete o dell’ischemia è, rispettivamente, di 15.600; 2.750 e 43mila euro. Esborsi che, tra l’altro, non finiscono qui perché sul conto dello Stato ci va anche la perdita di produttività, il pre-pensionamento, le cure informali.

 

 

SPERANZA DI VITA - Se i sedici milioni di italiani che oggi preferiscono il divano al fitness club cambiassero le loro abitudini risparmieremmo un gruzzoletto (per modo di dire, è più un gruzzolone) che oscilla tra i 5,9 e i 12,5 miliardi di euro. Miliardi, non milioni. Serve altro? Va bene, perché un discorso è quello delle casse pubbliche e un altro è quando in ballo c’è la nostra pelle, fa più impressione: sono anni che cerchiamo di autoconvincerci che sì, siamo un popolo sempre più anziano, ma che questa è persino una buona notizia perché vuol dire che l’aspettativa di vita s’è alzata e quindi viviamo di più. Il che è tecnicamente vero (la speranza di vita femminile è arrivata agli 84 anni e quella maschile ai 79).

Ma sicuri che il ragionamento finisca lì? Perché queste sono le aspettative di vita tradizionali, diciamo “anagrafiche”: però se poi scendiamo in quelle biologiche, cioè se prendiamo in considerazione solo quelle libere da acciacchi, malattie e disabilità, allora cambia tutto. Primo si appianano le situazioni (donne e uomini sono sullo stesso livello) e secondo registriamo un tonfo, arriviamo a 65 anni e tanti saluti. Non c’è solo l’aspettativa di vita, c’è anche la qualità della vita. Il risultato (anzi, l’obiettivo) è che conviene a tutti andare al campo sportivo, al circolo del tennis, in piscina, ovunque ci piaccia di più (non c’è una classifica degli sport che fanno bene, ognuno porta beneficio) e occorre iniziare da piccoli. «Negli ultimi quarant’anni», spiega infatti Casasco, «i ministri dell’Istruzione si sono occupati poco dell’educazione fisica a scuola, che è una materia fondamentale. Bisogna istruire i presidi e i professori perché da lì passa lo sport, nelle scuole. È un problema di sistema, che deve dedicare tempo e infrastrutture. Forse servirebbero meno compiti e più tempo libero da dedicare allo sport, educhiamo i nostri ragazzi alla salute. Mi auguro che la medicina dello sport possa entrare nel corso di laurea». Udite udite: serve un altro approccio. È tutta salute.

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