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Qualche domanda sulla teoria dell'evoluzione: cosa non torna

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Steno Sari
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Ho assistito in questi giorni ad una conferenza del professor Michael Denton, organizzata dal CIID (Centro Italiano Intelligent Design) in collaborazione con il Discovery Institute di Seattle. Nella sua relazione presentata all’Istituto Aeronautico “A. Locatelli” di Bergamo, questo scienziato, biochimico di fama internazionale, ha posto la questione: secondo la teoria dell’evoluzione, specie animali diverse che hanno seguito percorsi evolutivi diversi si ritrovano ad avere, fondamentalmente, lo stesso tipo di strutture, ad esempio le articolazioni. Come mai? Ad esempio, tutti i mammiferi a quattro zampe inizialmente hanno uno schema a cinque dita (pentadattilia), poi, durante la vita embrionale, in alcuni di loro le dita si fondono e il loro numero si riduce. Ma tutto ciò è il risultato di un processo evolutivo in cui entra in gioco la componente casuale oppure, come sostiene Denton, potrebberappresentare l’evidenza di una legge di natura già scritta negli organismi viventi? È finalizzata ad uno scopo? Se sì, quale?

Nonostante le teorie evoluzionistiche permeino non solo le scuole, ma anche l’insegnamento scientifico e altri campi come la storia e la filosofia, non sono pochi gli scienziati coraggiosi che le mettono in discussione e propongono un necessario ripensamento del paradigma che orienti la biologia evoluzionista verso una spiegazione migliore che vada nella direzione di un Disegno Intelligente. Per attuarla occorrerebbe una vera e propria “rivoluzione scientifica”, come sosteneva il Professor Thomas Kuhn, pensatore tra i più acuti e controversi del Novecento. Infatti le grandi rivoluzioni nella scienza (si pensi ad esempio alla teoria della relatività) si sono avute solo attraverso un cambio di paradigma, un mutamento radicale nel modo di pensare. Ripercorrendo la storia della scienza ci si rende conto però che è molto difficile realizzare e soprattutto accettare il cambio di paradigma. Come mai? Una possibile risposta sta nel fatto che una rivoluzione scientifica rappresenta un evento altamente drammatico in quei sistemi come le scienze “esatte” dove tutto sembra stabile e maturo.

 

 

 

Nel 1900 Lord Kelvin, uno dei massimi scienziati del tempo, dichiarava con sicurezza: «Non c’è niente di nuovo da scoprire nella fisica al giorno d’oggi. Tutto ciò che rimane da fare è una misurazione sempre più precisa». Solo cinque anni dopo Albert Einstein sconvolgeva il mondo scientifico, e non solo, presentando una nuova concezione dello spazio e del tempo. A volte la difficoltà è dovuta all’adesione ideologica ad un vecchio modo di pensare che rappresenta non solo un’interpretazione scientifica della realtà ma anche una visione teologica del mondo. Si pensi ad esempio al difficile e tormentato passaggio dal sistema tolemaico a quello copernicano che portò Galileo Galilei all’inquisizione o anche al passaggio dalla teoria della generazione spontanea della vita, durata 200 anni, alla biogenesi con gli esperimenti decisivi di Pasteur (omne vivum ex vivo). In fondo dietro ogni scienziato c’è sempre un uomo con le sue convinzioni e i suoi pregiudizi.

 

 

 

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