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Patate italiane, prezzi e varietà: cosa non sapete

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Attilio Barbieri
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Con poco più di un milione di tonnellate raccolte nel 2022, siamo al trentacinquesimo posto nella classifica mondiale dei produttori di patate. Ma abbiamo il primato delle varietà coltivate e commercializzate: ottanta. Le più diffuse e al contempo più note sono in tutto cinque, segnatamente quelle che possono vantare l’indicazione geografica. La Dop patata di Bologna e le quattro Igp: la patata di Colfiorito che si coltiva sia in Umbria sia nelle Marche e quelle del Fucino (Abruzzo), dell’Alto Viterbese (Lazio) e della Sila (Calabria).

In questi giorni l’Unapa, Unione nazionale tra le associazioni dei produttori di patate, assieme all’omologa francese Comité national interprofessionnel de la pomme de terre, ha lanciato una campagna per raccontare la sostenibilità del mercato europeo delle patate, oltre ai benefici nutrizionali garantiti dal consumo dei tuberi più diffusi al mondo.

Nonostante la pasta sia tuttora la fonte di carboidrati preferita dalle famiglie italiane, seguita dal riso, anche le patate conquistano nel piatto il loro spazio. Secondo l’Istat la spesa media mensile delle famiglie è aumentata nel quinquennio che va dal 2015 al 2020, da 3,62 a 4,25 euro. Nel corso degli anni, comunque, il consumo annuo pro-capite del tubero a pasta bianca è rimasto sostanzialmente stabile. Dai 35,6 chilogrammi a testa del 2014 ai 35,2 chili del 2018.

 

 

 

LA FORCHETTA DEI PREZZI

Secondo l’ultima rilevazione dell’Ismea, a luglio 2023 il prezzo medio all’origine delle patate è cresciuto del 56% rispetto allo stesso mese dello scorso anno a 54 centesimi al chilo. Sui banconi della grande distribuzione i tuberi si pagano in media da 1,70 fino a 2 euro al chilogrammo, con un ricarico che può raggiungere il 257%.
Ma il dato medio inganna. Ad esempio la patata di Bologna Dop si paga anche 3,50 euro al chilo. E nonostante i rincari di quest’ultimo anno e mezzo le patate - che hanno guidato a lungo la classifica degli aumenti- restano assieme alle melanzane le verdure più economiche in assoluto, oltre alle più duttili in cucina.
Importata dagli spagnoli da Perù, Bolivia, Messico e Cile intorno al 1570, la patata è entrata presto nella dieta di base degli europei. Da noi è largamente coltivata.

Secondo l’ultimo censimento dell’agricoltura, in Italia operano 23.357 aziende agricole che coltivano patate, per un totale di 27.920 ettari e una dimensione media di 1,20 ettari. All’Unapa aderiscono 11 organizzazioni di produttori, ufficialmente riconosciute e operanti in tutte le maggiori aree pataticole nazionali, che complessivamente aggregano circa 9mila aziende agricole. Un terzo del totale. Con una produzione pari a circa 240mila tonnellate, rappresenta circa il 25% della produzione nazionale e, con una superficie investita complessiva di 5mila ettari, copre il 17% della superficie nazionale pataticola, per un fatturato aggregato di 70 milioni di euro.

Le 9mila aziende agricole aderenti all’Unapa sono concentrate soprattutto in Piemonte, Lombardia, Veneto, Trentino-Alto Adige, Friuli-Venezia Giulia, Emilia Romagna, Abruzzo, Lazio, Campania e Calabria. Ma la produzione pataticola del Belpaese avviene praticamente su quasi tutto il territorio nazionale e le cinque varietà che hanno ottenuto l’indicazione geografica - parlo di Dop e Igp rappresentano una quota importante. Cui si aggiunge, tuttavia, una produzione strettamente legata ai territori esclusa però dai grandi circuiti commerciali. Le varietà tradizionali, alcune delle quali possono vantare una storia secolare, sono conosciute e consumate quasi esclusivamente nell’areale che le produce. E nonostante si tratti di ortaggi che hanno ottime possibilità di conservazione nel tempo e presentano meno criticità di altri nella fase di trasporto e stoccaggio, manca tuttora un mercato nazionale delle varietà tradizionali, se si esclude l’unica Dop, le quattro Igp e i marchi commerciali.

 

 

 

CONSUMO LOCALE

Al di fuori delle indicazioni geografie europee, abbondano infatti le patate classificate come Pat, Prodotto agroalimentare tradizionale, e come Deco, vale a dire Denominazione comunale. Ma queste varietà sono quasi del tutto escluse dalla grande distribuzione e risultano difficili perfino da censire. Mentre i Pat compaiono negli elenchi aggiornati da ogni singola Regione e pubblicati annualmente sul sito del Ministero dell’Agricoltura (Politicheagricole.it), per le Deco è necessaria una vera e propria caccia al tesoro. La promozione delle denominazioni inventate dal gastronomo, giornalista ed editore Luigi Veronelli, riconosciute surrettiziamente da una legge italiana del 2002 ma ignorate dall’Unione europea, è affidata alla buona volontà e alla lungimiranza delle amministrazioni comunali che purtroppo, con poche eccezioni, si impegnano occasionalmente nella promozione dei prodotti locali. Alcune Regioni hanno messo in cantiere iniziative per valorizzare queste categorie di alimenti confinati nei territori di origine. È il caso ad esempio della Sicilia che lo scorso anno ha approvato una legge regionale proprio per introdurre il registro digitale delle Deco. Provvedimento osteggiato a suo tempo dal governo Draghi che ne mise in dubbio la costituzionalità. Ma la Suprema Corte, cui si rivolse l’esecutivo, ha dato ragione alla Sicilia. 

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