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Riso, altro che Carnaroli e Arboreo: nel carrello arrivano i similari

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Attilio Barbieri
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Arborio, Roma, Carnaroli, Ribe, Vialone: la stragrande maggioranza delle confezioni in commercio dei grandi risi italiani non li contiene. Quasi sicuramente dentro al pacco di Carnaroli preso dallo scaffale di una qualunque catena della Gdo c’è uno dei suoi numerosi similari. Il Carnise, ad esempio. O il Karnak. Peggio ancora per l’Arborio. Ma è tutto legale.

Meglio: l’inganno c’è ma è addirittura autorizzato da una legge dello Stato che risale alla fine degli anni Cinquanta, per la precisione la numero 325 del 18 marzo 1958, grazie alla quale è possibile etichettare come Arborio, Carnaroli, Roma, Ribe o Sant’Andrea anche i loro similari. Vale a dire risi che per la forma del chicco, la sua consistenza e per l’impiego in cucina, hanno caratteristiche simili alla varietà in purezza. Attenzione, però: simili, non coincidenti. E infatti il risultato finale, una volta cotto il riso e servito a tavola, può essere molto diverso da quello atteso. Ho già scritto su Spesa Libera del pasticcio dei similari. Il tema non è certo inedito. Di nuovo però c’è l’esplosione delle varietà che imitano i risi in purezza. Nel giro di sei anni, da quando cioè è stata approvata la norma che ha classificato i risi puri come “Classici” , i similari sono raddoppiati. Proprio mentre la coltivazione delle varietà in purezza è crollata.

I DATI DELL’ENTE RISI
A testimoniare il fenomeno che certifica il fallimento dell’ultima riforma dedicata al cereale bianco ci sono i dati dell’Ente nazionale risi. Dal 2018 a 2023, le superfici dedicate alla coltivazione delle varietà in purezza si sono praticamente dimezzate: dai 5.822 ettari censiti nel 2018 ai 3.125 attuali. Andamento coincidente anche per quel che riguarda il numero di agricoltori che le hanno coltivate. Erano 340 sei anni fa, si sono ridotti a 177. Ma l’andamento può trarre in inganno: è il raccolto della campagna 2018 ad essere più abbondante anche rispetto al passato. Molto risicoltori, nell’illusione di poter spuntare un prezzo superiore con l’introduzione della denominazione “Classico”, hanno seminato più varietà in purezza. Ma già con il primo raccolto - quello del 2018 appunto - l’illusione si è infranta contro la realtà di un mercato indisponibile a valorizzare i risi puri, che hanno costi superiori e rese inferiori rispetto ai similari. Le riserie, in pratica, pagavano alla stessa cifra sia il Carnaroli Classico sia il Karnak, il Carnise o il Keope.

Tutto questo senza contare che la legge di riforma del mercato interno approvata nel 2017 era già partita spuntata. La denominazione “Classico” Baldo (Roma) Bacco, Barone Cl, Bianca, Bison Cl, Cammeo, Casanova, Cl145, Cl712, Corsa, Elba, Fedra, Galileo, Ires 1172, Mz105, Neve, Pascal, Proteo, Sa2003, Virgilio è frutto di un compromesso destinato a non scontentare nessuno, soprattutto i grandi confezionatori che guidano il mercato. Qualora sugli scaffali della grande distribuzione fossero apparsi pacchi di Arborio e Carnaroli con la denominazione “Puro”, i similari presenti sugli stessi banconi avrebbero patito un confronto impietoso da cui sarebbero usciti perdenti: se c’è un “Carnaroli Puro” l’altro per forza puro non può essere. Una distinzione che avrebbe comportato anche due prezzi diversi; proprio quel che le grandi riserie non volevano e hanno fatto di tutto per evitare.

COLTIVATORI DIMEZZATI
Il risultato finale è quello che si può vedere nella tabella che illustra l’articolo. Superfici e coltivatori dimezzati. Alcune varietà di risi in purezza, come il Roma e il Ribe non si coltivano proprio più. E a seminare l’Arborio puro sono rimasti 4 agricoltori in tutta Italia, con 21 ettari coltivati. Una superficie insignificante. Resiste, invece il Carnaroli Puro con 2.242 ettari dedicati e 124 coltivatori.

Merito anche delle iniziative che hanno coinvolto gli agricoltori che lo coltivano. In provincia di Pavia, prima provincia risiera d’Italia, ci sono due Carnaroli certificati: il Carnaroli da Carnaroli Pavese, frutto di un recupero ispirato e sostenuto dalla locale federazione provinciale di Coldiretti, cui si affianca il Carnaroli Dna Certificato del Distretto rurale Riso e Rane. Senza dimenticare il Carnaroli Delta del Po Igp che si coltiva dove il grande fiume si getta nell’Adriatico, nel territorio delle province di Ferrara e Rovigo.

«Da una parte ci vorrebbe maggiore chiarezza, soprattutto sugli scaffali dei supermercati», spiega a Libero la presidente di Coldiretti Pavia, Silvia Garavaglia: «il consumatore deve poter capire facilmente quello che sta acquistando. Dall’altra parte, invece, è necessaria una migliore valorizzazione delle varietà storiche: le industrie dovrebbero riconoscere il maggior impegno degli agricoltori che si impegnano a coltivarle». Tutto questo, per di più, avviene mentre il mercato italiano è invaso da riso proveniente dall’estero (+92% India e +67% Cambogia solo nell’ultimo anno). «Pochi giorni fa come Coldiretti abbiamo presentato all’Unione europea l’opposizione al riconoscimento dell’Indicazione di origine protetta (Igp) per il riso Basmati proposto dal Pakistan», aggiunge la Garavaglia, «un riconoscimento che potrebbe portare gravi conseguenze per la filiera risicola nazionale, senza contare che non sarebbe garantito il principio di reciprocità in termini di sostenibilità sociale ed ambientale nel processo di produzione del riso in Pakistan».

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