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Ci scordiamo il nostro passato: così sprechiamo il cibo

Corrado Ocone
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Sono dati che danno a pensare. Li ha forniti ieri la Coldiretti in occasione della Giornata mondiale dell’Alimentazione, promossa dalla Fao. Ogni anno nelle case italiane quasi 1,8 miliardi di chili di cibo vengono gettati nella spazzatura perché scaduti o andati a male. Gli sprechi delle famiglie si sommano a quelli della ristorazione e anche alle perdite che si verificano nelle catene della distribuzione. In totale, si può tranquillamente affermare che un terzo dei prodotti agricoli per l’alimentazione (frutta e verdura) vadano sprecati nel passaggio dal campo alla tavola. Tutto questo accade mentre più di tre milioni di italiani sono costretti a chiedere aiuto per mangiare ad associazioni come la Caritas o a parenti e amici. Il fenomeno si presta a diverse considerazioni: storiche, etiche, economiche, ambientali.

RACCONTI ANTICHI
Da un punto di vista storico, non si può non pensare ai racconti fatti dai nostri nonni, cioè dalla generazione che aveva vissuto la guerra e aveva subito le conseguenze, protrattesi anche negli anni successivi, del razionamento, prima, e della povertà diffusa, poi. Una povertà fra l’altro atavica che ebbe termine solo con il passaggio del nostro Paese dalla civiltà agricola a quella industriale, con il connesso boom economico che si verificò a cavallo degli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso. Prima di quel “miracolo”, nella maggior parte delle famiglie italiane, soprattutto quelle meridionali, raramente si riusciva a mettere insieme due pasti al giorno, la carne i più fortunati la mangiavano solo la domenica, la dieta era povera di proteine e di tutti quegli elementi che contribuiscono ad una crescita sana.

 



Scene indimenticabili della nostra cinematografia neorealistica, a cominciare dallo Sciuscià di Vittorio De Sica, hanno rappresentato più e meglio di mille saggi sociologici quelle drammatiche condizioni di vita, che colpivano anche e soprattutto i bambini. Vedere con quale nonchalance si butta oggi al macero il cibo, oppure considerarare con quanta lena ci si sottopone a diete e controlli alimentari per combattere l’obesità, lascia l’amaro in bocca e segnala un’altra stridente contraddizione. Per giudicare e capire bisogna però mettere da parte i sentimenti, o meglio i falsi moralismi: certe contraddizioni dopo tutto esaltano il nostro modello di crescita capitalistico, che ha permesso alla più parte della popolazione di uscire dalle secche della povertà riducendo il numero stesso di coloro (certo ancora tanti) a cui mancano i più elementari mezzi di sussistenza. Chi sogna la società ideale comunista, potrebbe additare al capitalismo certe contraddizioni e augurarsi il suo superamento. Casomai favorendo una presunta “decrescita felice”. Sarebbe un male di molto peggiore di quello che si vuole combattere, come l’esperienza tragica e fallimentare dei socialismi reali ha dimostrato fin troppo chiaramente. Ve li ricordate i supermercati vuoti, le carestie e le povertà diffuse e mascherate dei paesi gravitanti attorno all’orbita sovietica?

Le contraddizioni del capitalismo sono quelle stesse della vita: certi suoi effetti possono essere combattuti e temperati non cambiando modello sociale o di vita, come vorrebbe una facile retorica contemporanea, ma lavorando sui nostri comportamenti. Non imponendo dall’alto un loro cambiamento, cioè non con politiche dello Stato “virtuose” o di “etica pubblica”, ma con l’acquisizione di una consapevolezza personale da parte di ognuno di noi.

ETICA INDIVIDUALE
L’etica è sempre qualcosa di individuale, relativo alla singola persona, alla sua educazione. Da questo punto di vista molto possono fare le associazioni come Coldiretti, che si fanno promotrici di una sensibilizzazione dei propri aderenti e, in prospettiva, di tutti i cittadini, agendo sul territorio e in una dimensione locale. Sempre ieri, Coldiretti ci ha ricordato di essere impegnata con il progetto dei mercati di Campagna Amica, sostenendo le realtà locali e favorendo gli acquisti a km zero dei prodotti agricoli. Eliminando i lunghi trasporti e snellendo la complessa filiera della distribuzione, si può infatti ridurre del 60 per cento lo spreco alimentare. Sulle nostre tavole arriverebbero prodotti più freschi e che durano di più. E contestualmente si limiterebbe l’impatto ambientale dei suddetti trasporti. Chi se non il nostro Paese con la varietà dei suoi prodotti, con la vitalità della sua agricoltura, con la qualità naturale dei suoi cibi, può farsi avanguardia di una tale “rivoluzione”? Il tutto deve però avvenire senza ideologismi, con pragmatismo, tenendo fermo l’obiettivo del benessere generale. Ben venga lavorare sugli sprechi e razionalizzare ove è possibile, ma senza demonizzare il nostro sistema di produzione e senza elaborare fallaci progetti dirigisti.

 

 

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