Paolo Beldì: "La sera in cui Adriano Celentano sparì durante la diretta"
Paolo Beldì è il miglior regista televisivo italiano. Ce ne sono altri bravi, ma lui è l'essenza del postmoderno televisivo, con il suo unire mestiere e improvvisazione, informazione e curiosità, l'eleganza vintage di Antonello Falqui alla follia anni 80 di Enzo Trapani. «Adesso però faccio il musicista. Ho un sacco di tempo libero. E piuttosto che guardare la televisione…». Anche Beldì è stato colpito dall'inesorabile falce Rai, quella che sta diserbando i giardini creativi, risparmiando quelli pensili. Qualche piccola e deliziosa vendetta personale però riesce ancora a prendersela. Come è successo settimana scorsa, quando RockEconomy, lo show con Celentano all'Arena di Verona, ha vinto la serata con oltre 4 milioni di spettatori. Alla terza replica. La regia era firmata Paolo Beldì. Benché Adriano abbia rimaneggiato qualcosina nel montaggio. «Lui non si discute. È uno dei miei più grandi amici. Anche se ogni volta mi fa perdere due anni di vita. Proprio a Verona ricordo che eravamo rientrati da una pausa pubblicitaria. Torniamo in onda e per alcuni minuti mostro un tavolo vuoto. Tutti avranno pensato alla solita “pausa alla Celentano”. Invece Adriano era proprio scomparso. Avevo i sudori freddi». Eppure lei ha sulle spalle ore di dirette impegnative. I Sanremo, le infinite puntate di Quelli che il calcio… «Quella resta la mia creatura più amata. Il titolo lo dobbiamo a Enzo Jannacci e a Beppe Viola. Fabio Fazio ebbe l'idea di ricorrere a quella canzone ed Enzo ci fece anche la sigla su misura. Oltre che regista, io ero l'addetto al recupero di Jannacci all'ingresso della Rai. Bisognava prenderlo e guidarlo, altrimenti si sarebbe perso ogni volta. Poi io ero uno dei pochi, insieme a Paolo Rossi, a capire quando parlava Jannacci. Sembrava una specie di Vasco Rossi ante litteram». Nei primi tempi la trasmissione era meno ansiogena e più sorniona. Senza lo stile giovanilistico delle ultime edizioni o quello finto-snob della Cabello. «La sua caratteristica era l'ironia, una cosa che latita quando si parla di sport. Abbiamo superato due tabù. Il primo è stato quello di dichiararsi apertamente tifosi. Prima non era possibile dirlo. Pensi al giornalista sportivo Paolo Valenti che confessò la sua passione viola solo quando andò in pensione. Invece noi eravamo liberi. Il regista mandava in onda l'inno della Fiorentina, il conduttore tifava Samp, Idris tifava Juve, Buscemi l'Inter. E poi c'era la possibilità di interrompere chiunque stesse parlando quando c'era un goal. Fosse stato anche il presidente della Repubblica, se segnavano si mandava in onda il goal. Era molto utile per interrompere gli ospiti logorroici. Con la scusa del goal si girava pagina e si parlava d'altro. Eravamo una vera associazione a delinquere messa insieme da Bruno Voglino. Lì ho iniziato a fare cose fuori luogo, inquadrare un piccione che non c'entrava niente, le scarpe. Ricordo quegli otto anni passati con Fabio come un liceo prolungato, una scuola in cui avevi voglia di andare ogni giorno per vedere gli amici». Beldì, nessuno la sposta da Novara. Ma televisivamente lei è milanese, sin da quando, a fine anni 70, imparava il mestiere nei capannoni di Antenna 3 Lombardia, non lontano da Malpensa, dove comunque ci si sente ancora a Milano. «A Milano la televisione è nata, è qui che la Rai ha svolto le sue sperimentazioni più importanti. Io ho preso parte a quasi tutte le trasmissioni che hanno rimesso in moto la sede milanese dopo una lunga stasi. Da Porca Miseria e Anima mia con Fabio Fazio a Svalutation con il mio amico Celentano. Ho centinaia di ricordi legati a quei luoghi, ma quello più micidiale risale a quando avevo 6 anni ed ero venuto a vedere una trasmissione con Corrado, L'amico del giaguaro. C'era anche Abbe Lane di cui mi colpì molto la… schiena». Cosa ci faceva un bambino di sei anni in uno studio televisivo? «Mio padre, Aldo Beldì, era un celebre pubblicitario. Lui ha lanciato la De Agostini, per esempio. E per la Bialetti aveva realizzato durante una Fiera Campionaria una caffettiera enorme da cui scendeva un liquido marrone profumato di caffè. Pensava all'americana: aveva riempito l'intero corso Sempione di manifesti enormi con l'immagine della Moka Express Bialetti. Io, mentre trasmettevo nelle prime radio libere demenziali, sulle orme paterne avevo iniziato a comporre jingle pubblicitari. Ma odiavo la pubblicità. Così un giorno, parlando delle mie depressioni con Beppe Recchia, lui mi disse: perché non provi a fare il regista? Non ne ero molto convinto, ma iniziai a collaborare con lui, affiancandolo ad Antenna 3 Lombardia in oltre mille ore di diretta». Si dice sempre che la televisione moderna sia nata, nel bene e nel male, da Drive In. In realtà tutto era nato a Castellanza, dove un imprenditore locale, Renzo Villa, e un celebre giornalista bandito dalla Rai, Enzo Tortora, fondarono Antenna Tre Lombardia. «Fu un momento molto importante. I migliori tecnici che lavoravano ad Antenna 3 sono passati poi nei grandi nelle grandi reti. E da lì uscirono tutti i comici del Drive In. Teo Teocoli e Massimo Boldi sono nati lì. Così come vi erano rinati I Gufi. E poi c'erano quelle trasmissioni che anticipavano i talent attuali. Cos'è X Factor se non una serie infinita di provini? Ecco, noi lo facevamo già ad Antenna 3, con la Ciperita di Lucio Flauto, una crasi tra cipolla e margherita, in quanto il pubblico rispondeva alle esibizioni degli artisti lanciando una verdura o un fiore di plastica. Io ero aiuto regista di quei programmi perché Beppe, impegnato anche con Portobello, mi affidava le prove. A proposito di Drive In, una cosa che sanno in pochi è che io ho composto gli stacchetti e le musiche originali di quel programma. E spesso mi vengono ancora “presi in prestito” da “amici” nelle loro trasmissioni». Oltre a dirigere Tinì Cansino avrà avuto anche altre soddisfazioni dal suo mestiere. «Dario Argento si interessò al mio modo di fare le riprese in studio. Quando feci il primo Saremo, dove i mezzi tecnici sono piuttosto ricchi, avevo chiesto un braccio di dodici metri che usavo più che altro per cogliere il pubblico in momenti di assopimento o imbarazzanti. Vidi una ripresa simile in un film di Argento. Evidentemente si era ispirato alla mia tecnica. Non dimentico i momenti in cui ho incontrato i miei idoli. Elvis Costello, che, ospite a Quelli che il calcio… non ha nemmeno cantato ed è rimasto tra il pubblico. Poi Elton John, David Bowie. Anche se il vertice della mia esperienza l'ho provato un pomeriggio durante le prove di Francamente me ne infischio con Celentano. Si era appena esibito Joe Coker e io dissi: “Bene, abbiamo finito con Joe Cocker. Avanti Tom Jones”. Due miti, uno dopo l'altro! Era proprio una tv diversa». intervista di Tommaso Labranca