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Quando la Fenech era la principessa sul pisello: Feltri proibito dietro le quinte del varietà Rai nel 1988

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Marco Rossi
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La montagna partorisce il topolino, e il topolino se la mangia. Nella guerra degli indici di gradimento, ogni valore, buonsenso incluso, viene stritolato. E così succede che Edwige Fenech, impacciata presentatrice di Carnevale (Reteuno) ed ex protagonista di film cochon, diventi un simulacro venerabile per funzionari e registi, cameramen e truccatrici, sarte e generici vari al soldo dell' ex monopolio. Una dea per tutti, tranne che per il pubblico che assiste inerte e avvilito ai riti melensi del sabato sera. Visto da vicino, anzi da dietro, il programma della sempreverde algerina sembra una caricatura degli show tradizionali; una caricatura talmente forzata da risultare più assurda di quella architettata da Arbore. Paradossalmente, Carnevale è la parodia involontaria di Indietro tutta. Dopo lo sconquasso provocato da Celentano, è in atto un tentativo di videorestaurazione che riporta viale Mazzini alla paleotelevisione, quella di Lauretta Masiero, del mago Zurlì e del professor Cutolo. Nei padiglioni della Dear, in via Nomentana, non c'è il serpentone idrovoro dell'appuntato Frangipane, ma un codazzo di serventi che saltellano intorno alla Fenech per placarne i capricci e l'ansia. Clima da psicodramma. Quando entriamo negli stabilimenti cinematografici trasformati in dépendance della tivù di Stato, sono le 18 e 30. Mancano due ore all'inizio dello spettacolo che fa la concorrenza a quello di Raffaella Carrà. Ma è già un delirio a cui contribuiscono le prove di altre trasmissioni. Nello studio 2, imperversa Ieri Goggi domani; nell'1 si esercita Barbato per Va' pensiero; nel 5 si allestisce Domenica in. Il battaglione degli ospiti vaga nei corridoi in attesa dell'appello. E nel gran vociare emergono comandi gridati: "Luce, datemi le luci. Sposta quel carrello. Più in là, mortacci...". Il bar è come quello della stazione di Catania, affollato e polveroso, conquistare lo scontrino alla cassa è un cimento muscolare. Su una distesa di bucce di bruscolini, bivaccano bionde stoppose dall'incerto mestiere, forse sono ragazze ponpon; giovanotti di colore che col piede battono il ritmo di una musica immaginaria e guardano sognanti il soffitto annerito dal fumo. A un tavolo, gli orchestrali in smoking e mocassini con la para tirano le carte per un interminabile scopone scientifico, e al conteggio dei punti s'azzuffano rinfacciandosi le colpe di un 7 non spaiato e di una fallita primiera. Transita Banfi, che è preciso all'imitazione di se stesso, cioè uguale al finto cugino: la camicia di flanella a quadretti che gli esce dai pantaloni, maniche rimboccate, un'aria stravolta e pensosa, Gianfranco Jannuzzo passeggia nervoso. Stefano Nosei ce l'ha col nodo della cravatta. Renato Pozzetto stringe per mano una bambina col soprabito celeste (quella che ha fatto il film con lui sul fanciullo che divenne adulto in tre minuti) e conversa con tutti quelli che incontra. Ma dov' è Edwige? Otteniamo di avvicinarci alle sue stanze grazie all'intercessione di Marco Luce, paziente cucitore dei rapporti tra il circo della Rai e quello del stampa. Lo seguiamo negli ambulacri riservati agli addetti ai lavoratori e ci imbattiamo in un tale che suona la cornetta appoggiato a uno stipite. Ci affacciamo nella sala delle costumiste, e una dozzina di donne in grembiule bianco, stupite per l'intrusione, sollevano la faccia dal piatto di porchetta: sedute al tavolo delle imbastiture, approfittano di una pausa per cenare fra spagnolette, manichini e ferri da stiro. Odore di tela nuova e rosmarino fritto. Passiamo oltre. Ed ecco Cocciante, criniera ricciuta, in giacca con maniche alla raglan, sobria. Poi un tizio in canottiera, orecchini che brillano e stuzzicadenti che gli pende dalle labbra. E finalmente, il camerino-tabernacolo della Fenech. Ma lei non c' è. "Ancora non s'è fatta vedè - ci informa il parrucchiere piuttosto seccato -, e l'acconciatura è tutta da sistemare. Sempre così, mannaggia alla...". Torniamo nella bolgia dove spicca una calvizie: è quella di Pierluigi Zerbinati, il sosia di Craxi. L'attore, con Oreste Lionello mascherato da Andreotti, farà un numero in Carnevale. È molto più basso del segretario del Psi e gli somiglia vagamente, come vagamente si somigliano tutti i pelati dalla fronte in su. Indossa un completo di grisaglia senza pretese, e appare soddisfatto di sé. Come potrebbe non esserlo? Lo pagano per mettersi le mani sui fianchi, sporgere il petto e ripetere qualche luogo comune con timbro ducesco. Nessuno ride, ma lui incassa. Ormai, le spiritose vignette di Forattini hanno trovato una genia di imitatori in ogni ramo espressivo che spacciano patacche di Craxi con gli stivali: sono falsi grossolani che non divertono e minacciano di appassire anche la vis comica degli originali. La tivù è un tritasassi. Poco più di un anno fa, Grillo fu lapidato per un paio di battute convenzionali sui socialisti; adesso Zerbinati si esibisce impunemente, suscitando malinconia e disagio, in banali ritratti pseudosatirici che puntano sull'indole forte di Bettino. Al quale bisogna dare atto di essere forte sul serio, almeno di stomaco, essendo riuscito a digerirli insieme con l'autore e chi lo ha scritturato. Ma da queste ovvie riflessioni siamo distolti per un'improvvisa eccitazione che ha colto i tecnici. È il segnale che Edwige è arrivata. E cerchiamo di raggiungerla. Ma fuori dal camerino, il parrucchiere ci avverte: "Semaforo rosso, sta infilandosi il vestito". Aspettiamo cinque, dieci minuti. Sentiamo un bisbiglio. Ancora silenzio. Quindi una ragazza dalla pelle scura esce di corsa, gli occhi sbarrati, dice più sconsolata che disperata: "Mo' non se lo vuole mettere, non le piace". E si precipita in sartoria. Concitazione, strilli: "Le forbici, dove sono le forbici?". Si fa avanti una donna anziana, scuote il capo: "Fatemè dà uno sguardo". Conciliaboli. Altri strilli: "Svelte, i cerotti. E le spille. Non una, tre spille, quattro, te pozzino amm...". Il trambusto cresce. Una processione irrompe nello stanzino. E ci rendiamo conto che in Rai un abito che non sia gradito alla diva equivale a dipendenti alla morte di un parente stretto. Interviene Pozzetto con bimba-collega. Intervengono Nosei, un funzionario, uno dell'ufficio stampa, uno stuolo di lavoranti, un cameriere con due cartoni di acqua minerale. È uno di quei momenti, si intuisce, che precedono le tragedie se non le catastrofi. Siamo rassegnati a vedere la Fenech in déshabillé che sbatte la porta e se ne va in lacrime: "Basta, non ci sto più!". E dietro di lei un plotone di supplicanti: "No, resta, fallo per noi, Edwige". L'uscio si spalanca. Colpo di scena: da quella stanza, che deve essere come Versailles per contenere tanta gente, sortiscono esultanti le modiste, gli assistenti, tutti. E una signora annuncia: "Se l'è messo, grazie a Dio". Tocca a noi. Ci accingiamo a bussare, quando una mano di ferro blocca la nostra. "Calma", ammonisce il titolare del robusto arto. Siamo calmissimi. E attendiamo ancora. Fra dieci minuti attacca la diretta. Che l'intervista vada a farsi benedire? Miracolo. La Fenech appare. Bella. Altera. Un incedere lento, solenne: che sia un artifizio per valorizzare il portamento? No. Paura di cadere dai tacchi e oggettiva difficoltà a reggersi in precario equilibrio sulla punta degli spilli. Ella viene verso di noi, schiudendo la bocca in un sorriso che incanta. Abbiamo il sospetto che sia dedicato a qualcuno alle nostre spalle. E ci voltiamo, verificando che è proprio per noi. La Splendida ci concede l'onore di accompagnarla fino al proscenio e di interrogarla mentre percorriamo il tratto da qui alle telecamere. - Perché trema? Emozione, tanta emozione per il programma che si inizia. Si distrae subito, stimando compiaciuta l' ammirazione che si legge nelle pupille del popolo che fendiamo per recarci nello studio. - A che cosa sta pensando in questo istante, alla Carrà? Figuriamoci, penso alla mia trasmissione. - La considera un successo? Sì. E spero che duri. - Ora che ha scoperto il video, basta cinema e basta teatro? A febbraio uscirà un mio film. Un film importante. - Meglio il set o la tivù? Apprezzo entrambi. - Teme più l' Auditel o i riflettori? Tutto. Niente, tutto, non so. Ce la sottraggono tre o quattro dirigenti che la conducono al microfono. Si ode il fruscio dell'abito sul pavimento. Poi Edwige è sola, e dice d'un fiato quello che sa: "Signori, ecco a voi". Per la televisione è sufficiente, e lei si conferma diva. di Vittorio Feltri

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