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Luca Pretolesi, l'italiano che domina l'America: “Così creo la dance del futuro”

Leonardo FIlomeno
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“La mia missione è portare la musica ai massimi livelli. Non sono in concorrenza con i miei clienti, né ho avuto bisogno di riciclare il passato. Credo siano questi i motivi del mio successo”. Luca Pretolesi è il produttore dei produttori. Negli studi di registrazione dello Studio DMI, a Las Vegas, si occupa di mixaggio e co-produzione. Ex dj producer, origini genovesi, visionario da sempre, ha l’ultima parola su ogni cosa. Per mesi, custodisce produzioni destinate a diventare successi globali. Come un architetto di idee e suoni, “o come un avvocato”, ride. Lavorare con lui, o avvalersi di qualche sua dritta, è uno passaggio fondamentale per chi vuol fare la differenza. Dai Major Lazer in giù, i fenomeni musicali più importanti degli ultimi anni sono passati dai suoi 3 studi. È stato protagonista dell’epoca più genuina dei rave. The Mountain Of King, This Is Mutha F**ker!, Gimme A Fat Beat, come Digital Boy, restano inni techno insuperati. “Quel bagaglio è fondamentale, ma oggi sono un’altra cosa”, chiarisce.

La molla che ti ha permesso di ripartire in America?  
“Soprattutto all’inizio, ho osato tantissimo. La novità è stata aiutare gli artisti, andare da loro apprezzando il lavoro svolto, ma facendo notare che con la mia esperienza e le mie idee avrebbero alzato ancora l’asticella. Non credo di aver peccato di arroganza, la reazione è stata subito positiva. In Italia tutto questo non sarebbe mai potuto accadere. Se rappresento una parte attiva di questo circolo, lo devo all’apertura mentale di tanti produttori americani”.   
A proposito: si sono convinti che è il caso di tornare a fare dance?  
“Per ora la tendenza non cambia: battute lente, grandi melodie e tanto ritmo da una parte; influenze trap e hip hop dall’altra. Un singolo ogni 6 mesi non basta, servono più uscite, con sonorità sempre diverse. Dopo l’ondata del genere big room dell’EDM, dove produttori vecchi e nuovi hanno sfornato dischi tutti uguali, virare sulla canzone tradizionale è stato un passo obbligato”.
Diplo o Calvin Harris possono fare pop, ma gli altri?  
“Rispetto a prima, se hai un pezzo forte e intelligente, non esistono più limiti di generi, velocità o stili: si va verso una fase creativa, meno impostata. Due esempi possono essere Marshmello, che utilizza spesso il nostro studio, e Fabio Rovazzi, su cui ho lavorato. C’è una grande voglia di mescolare il presente col passato, con gli anni ’80 per esempio: spero non sfumi”.
Oggi nella dance chi dà realmente le carte?  
“Il supporto di influencer come Diplo o Skrillex è fondamentale quando in un ballo c’è progetto che ha portato delle novità sul mercato. La loro approvazione crea un grosso interesse, recepito poi dalle etichette, che oggi intervengono solo quando il grosso del lavoro è stato fatto. Mentre, per quanto riguarda le produzioni di giganti come Katy Perry o Selena Gomez, la gestione è molto tradizionale: l’etichetta fa un investimento di marketing importante, il resto lo fanno i fan”.
I social contano più delle radio?  
“In America sì, le radio sono una macchina lenta, istituzionale”.
Come in Italia, d’altronde.  
“La selezione è limitata a 30 successi, sempre quelli, sono indietro. L’ascoltatore medio è meno ricettivo al nuovo, questo allunga la vita alla canzone, per la gioia delle etichette. Le novità le senti sulle radio satellitari, che puoi ascoltare in macchina con un abbonamento di pochi dollari (una chimera, in Italia, ndr)”.
Lavori con tanti italiani, siamo migliorati?    
“A livelli alti, sì: le modalità non sono così diverse da quelle americane. Mi riferisco a personaggi come Giorgia, Jovanotti, Merk & Kremont o Rovazzi, per cui ho avuto il privilegio di lavorare”.   
A quei livelli si investe, chi è più in basso che fa? 
“L’investimento è lo stesso degli anni ’90: ai tempi spendevi 50 milioni per uno studio, oggi investi sui social. Ad ottimizzare il lavoro ci pensa chi fa il mio lavoro. L’errore di chi si affaccia è avere come punti di rifermento i numeri delle star. Non bisogna porsi subito alti obiettivi, ma godere dei piccoli traguardi. Molti fanno il contrario, pompando prima i social. È un errore. L’immagine è importante, ma la musica la precede”.
Nell’industria EDM è stato a lungo il contrario.  
“Infatti quella generazione è finita. Penso al dj giovanissimo spinto dal big di turno a colpi di collaborazioni: tutto si è sgonfiato. Nei festival, qui specchio autentico del mercato, ora c’è spazio per i live dei cantanti, che affiancano i dj. Avere sullo stesso palco dj che suonano a 115 o a 150 bpm oggi è possibile. E chi viene ai festival segue i dj come fossero cantanti tradizionali”.
Hai detto: “Con Digital Boy non dovevo ispirarmi a nessuno, era tutto all’inizio”.  
“La spontaneità cala con la maturità, quando inizi ad analizzare. Restare in primo piano, per un produttore, potrebbe risultare una forzatura. Non siamo così diversi dagli atleti: Mike Tyson 20 anni fa era un mito, se lo chiami oggi non ce n’è. Ho smesso di produrre soprattutto per questo. La mia attività a Las Vegas, dal 2001 ad oggi, l’ho portata avanti con l’entusiasmo con cui producevo Digital Boy, ma facendo cose nuove, e non riproponendo gli anni ’90, come tanti artisti dell’epoca oggi sono costretti a fare. Le feste revival, che tante volte mi hanno proposto, mi fanno un po’ sorridere”.
Il tarlo della dance italica qual era?   
“Verso la fine degli anni ’90, il discorso era diventato molto politico, con 2 o 3 etichette che controllavano il mercato. Per essere considerato un artista di successo dovevano avvenire determinate cose: penso all’inserimento del pezzo nella compilation di punta, al supporto di un determinato dj… Una formula prevedibile, applicata da tanti produttori sistematicamente. Si guadagnava di più dai dischi, ma era un meccanismo legato solo all’Italia. Lo stipendio erano i soldi delle serate”.
E quando a un certo punto toppavi?  
“Cambiavi casa discografica, scendendo di livello, fino a sparire dai radar. Dare il pezzo prima a una radio significava il boicottaggio dell’altra. A livello di sonorità, la tendenza era ripetersi all’infinito. La dance italiana era diventata un fenomeno di provincia, dove la provincia era l’Italia. E quello che facevamo non rispecchiava ciò che accadeva all’estero. Questo fino a quando Satisfaction di Benny Benassi ha alzato di nuovo il livello”.
Quando hai capito che il tuo studio stava diventando centrale?  
“Quando artisti come Steve Aoki, Diplo o DJ Snake hanno iniziato ad avere successo col mio sound. Con Diplo abbiamo pubblicato tracce che nel giro di 2 anni sono diventati dei punti di riferimento globali. Ed erano produzioni fatte solo per il piacere di fare musica”.
Ci sono dei dischi che senti tuoi più di altri?  
“'Lean On’ dei Major Lazer. Il successo c’entra relativamente. Tutte le parti vocali le ho registrate con Diplo, fondatore del progetto, quando di solito intervengo sui dischi in una fase successiva. È nato come demo per Rihanna. Non l’ha voluto. Ma con Diplo ci siamo detti: Completiamolo, vediamo cosa succede. Ad oggi, un singolo di Rihanna, i numeri di ‘Lean On’ non li ha fatti mai”. 
Hai 45 anni. E un lavoro che non scade mai.  
“Sto costruendo comunque una base per quando, fra 10 o 20 anni, smetterò di fare questo, in modo tale che la macchina che ho costruito cammini da sola. Certamente non smetterò domani, non ce la farei. C’è in giro così tanta bella musica, che il mercato fa fatica a supportarla tutta. E in questa fase così creativa, sento di ricoprire un ruolo fondamentale, soprattutto per ciò che avverrà in futuro. Vent’anni fa ero in campo, ora siedo su una panchina dorata. Sono come l’allenatore della Juventus che un tempo faceva il giocatore”.

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