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Sanremo 2023, l'attivista anti-Iran? Vietato dire Islam

Tommaso Lorenzini
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Nel Festival che dà voce a tutti i discriminati e a chi lotta contro i diritti violati; che per bocca della seminuda Chiara Ferragni ci ribadisce il ruolo apicale della donna nella società; che ospita cantanti testimonial della sessualità fluida; che permette a Fedez di strappare le immagini del viceministro Bignami perché vestito da nazista all’addio al celibato 15 anni fa; che manda sul palco Paola Egonu per dirci che siamo un Paese di razzisti; nel Festival dei cuor di leone è meglio attaccare la repressione in corso in Iran senza tuttavia pronunciare la parola islam. Perché se Sanremo è Sanremo, Maometto è Maometto ed è meglio non toccarlo: sai mai che non possa offendersi qualcuno e che ci vada giù più pesante di quel che ha fatto Blanco con le rose. Inclusivi con tutti, con gli islamici un po’ di più. È più salutare.

Il capolavoro di ipocrisia, autoconservazione e aggiramento della realtà, senza però perdere la faccia e anzi dandosi un tono, è infatti il blocco di otto minuti dedicato alla denuncia delle violenze perpetrate da Teheran. Una striscia di terrore ininterrotta, iniziata il 16 settembre con la morte di Masha Amini (pestata a sangue dalla polizia morale per aver indossato male il velo in pubblico), sorprendente nella sua ferocia ma naturale prosecuzione di quattro decenni di sharia con gli ayatollah al potere. Eppure, in otto minuti la parola islam non viene mai pronunciata, né sfiorata. Mai. Paura? Ordine della dirigenza Rai? Scelta della direzione artistica?

 

IL DIALOGO
Un Amadeus contrito, per l’occasione più appassito di una mimosa in Antardide, parla di «un ideale chiamato donna, vita, libertà» e introduce l’intervento di Pegah Moshir Pour, «consulente e attivista dei diritti umani e digitali», arrivata in Italia nel 1998 eppure ancora legatissima al suo Iran tanto da finire al Festival per accendere microfoni e riflettori sulla vergognosa repressione in atto. «Buonasera a tutte ed a tutti, mi chiamo Pegah», si presenta, la 31enne, «italiana di origine iraniana, nata tra i racconti del “Libro dei Re”, cresciuta tra i versi de “La Divina Commedia”», nativa di un Paese dove il solo parlare di fronte a una platea a capo e spalle scoperte le sarebbe costato l’arresto, forse «addirittura sarei stata uccisa».

Cinque minuti e mezzo di eloquio sereno ma toccante, gli occhi profondi a spiegare quello per cui non basta la voce. «La parola Paradiso deriva dall’antico termine persiano Pardis, giardino protetto. Allora io vi chiedo: Esiste un Paradiso Forzato? Ahimé sì... come altro si può chiamare un luogo dove il regime uccide persino i bambini?», domanda Pegah. Il monologo diventa poi un dialogo. La raggiunge sul palco Drusilla Foer (attore che all’anagrafe fa Gianluca Gori), le prende la mano e lo scambio di battute tra le due, vestite di un cremisi che rimanda al sangue versato, diventa battente, vibrante, declamano i versi della canzone “Baraye” (significa “Per”) composta dal dissidente Shervin Ajipour usando i tweet dei giovani di Teheran. Un inno della rivoluzione, una cartolina dall’inferno.

 

Drusilla: «Per poter ballare per strada».
Pegah: «In Iran si rischiano fino a 10 annidi prigione se si balla per strada o si ascolta musica occidentale».
Drusilla: «Per paura di baciarsi».
Pegah: «In Iran è proibito baciarsi e stare mano nella mano con la persona che ami».
Drusilla: «Per mia sorella, tua sorella e le nostre sorelle».
Pegah: «In Iran si paga con la vita il desiderio di esprimere la propria femminilità».
Drusilla: «Per l’imbarazzo e la vergogna».
Pegah: «Più di 20 milioni di persone vivono sotto la soglia di povertà, senza soldi per mangiare».
Drusilla: «Per i cani innocenti proibiti».
Pegah: «Il regime uccide i cani sia di proprietà che di strada».
Drusilla: «Per gli intellettuali imprigionati».
Pegah: «Nella prigione di Evin ci sono più di 18mila tra intellettuali, dissidenti e prigionieri politici che spariscono nel silenzio».

RADICALI
E perché tutto questo? Perché l’Iran è retto dalla legge islamica, applicata dalla Repubblica teocratica che proibisce ciò che in Occidente è quotidianità, normalità, civiltà. Eppure, sul palco a Sanremo si evita accuratamente di sottolinearlo, si sostiene di «non aver più paura della paura» eppure si parla genericamente di «regime» (parola usata due volte) senza spiegare che è per colpa di quel preciso regime islamista che si uccidono i gay e i bambini, si vieta alle donne di sciogliersi i capelli, si imprigiona i dissidenti. Tutto in Iran fa capo all’interpretazione radicale del Corano, ma a Sanremo le colpe dell’ayatollah si tacciono, diventano una canzonetta senza autore. La battaglia contro il velo non riesce a far cadere il velo del politicamente corretto. Altro che «per la libertà». P.S. Visto che Pegah è cresciuta tra i versi della Commedia, saprà che Dante non taceva su Maometto, riservandogli un posticino all’inferno...

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