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Vincenzo Mollica a cuore aperto: "La curiosità è più forte del buio"

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Daniele Priori
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«L’arte di non vedere l’ho imparata da Camilleri, quella di guardare oltre da Federico Fellini». Vincenzo Mollica, 71 anni il prossomo 27 gennaio, 40 dei quali trascorsi nella redazione spettacoli del Tg1, si racconta in due serate evento a teatro. Giovedì scorso, nella prima delle due, ha fatto un sold out all’Auditorium Parco della Musica di Roma e stasera sarà al Teatro Arcimboldi di Milano. Non chiamatelo però spettacolo. «Non ho cambiato mestiere. Resto cronista. Si tratterà di una conversazione» intitolata proprio L’arte di non vedere, prodotte da Concerto Music, in collaborazione con Vigna PR, e con le musiche e le sonorizzazioni curate dal maestro Enrico Giaretta. «Vuole essere il racconto di quello che mi è capitato nel corso della mia vita da cronista vedente e non vedente. Non scriverò mai un’autobiografia, genere nel quale un po’ tutti ormai si aggiustano il passato come meglio credono, per cui ho scelto di organizzare questa conversazione tra amici nella quale tutto sarà riportato come è accaduto, in libertà totale».

Lei ha raccontato di aver saputo a 7 anni che a un certo punto della sua vita avrebbe perso la vista.
«Sì, ho saputo a 7 anni che sarei diventato cieco. Oggi ne ho 70, quindi è come se decina e unità del 7 in qualche modo si siano riunite. E in qualche modo è come se improvvisamente fossi tornato proprio a quei 7 anni. L’ho saputo dopo che i miei genitori mi avevano portato dall’oculista in Calabria perché non vedevo dall’occhio sinistro. Io ero già fuori dallo studio del medico ma riuscii lo stesso a sentire dalla porta che era rimasta aperta quello che il dottore disse ai miei: cioè che avrei smesso di vedere. Poi mi portarono da un luminare in Sicilia che confermò la cosa, specificando però che sarebbe avvenuto lontano nel tempo. E ora è arrivato».

 

 

 

Come ha vissuto con questa spada di Damocle sulla testa?
«Tutta questa vita da cronista l’ho fatta vedendo da un solo occhio, il destro, mentre col sinistro ho sempre visto solo ombre in un mare di latte. Mi bastava chiudere l’occhio destro per capire quale sarebbe stata la mia dimensione futura».

Viene quindi da pensare che non sia stata una casualità il fatto che abbia intervistato nel corso della sua carriera molti artisti non vedenti: da Stevie Wonder a Borges fino, più recentemente, a Camilleri...
«Certamente. Tra tutti questi chi mi ha insegnato di più sull’arte del non vedere è stato sicuramente Andrea Camilleri, uno dei più grandi artisti che ho conosciuto nella mia vita. Un’altra intervista che ricordo con particolare piacere fu quella con Ray Charles a Taormina, dove stava facendo un concerto con Lucio Dalla. Parlando con lui ebbi come la sensazione che ci vedesse. La sera, mentre lo ascoltai suonare con Lucio, ebbi la conferma della magia che i suoi occhi trasmettevano pur non vedendo».

Nello spettacolo racconta che Fellini è stato il primo che le ha insegnato a “guardare oltre”. Come?
«Fellini mi ha insegnato una cosa importantissima la differenza tra guardare e vedere, dove vedere significa riuscire capire quello che hai visto e poterlo raccontare, quindi ascoltare. Sentire se una storia ti emoziona. Federico diceva: “È la curiosità che mi sveglia al mattino”. Io quella curiosità l’ho sempre avuta, da vedente e da non vedente e ancora la mantengo. La custodisco come se fosse un bicchiere mezzo pieno al quale abbeverarsi nei momenti più neri».

Con Fellini ha condiviso anche la passione per il disegno, vero?
«Per i fumetti. Certamente!».

Le è capitato di disegnare con lui?
«No, no, per carità. Io sono uno scarabocchiatore. Lui era un vero disegnatore. Fellini poteva fare tutto quello che voleva: il regista cinematografico, lo scrittore, il pittore. I tanti frutti di questo talento così straordinario lui poi li metteva tutti in un film».

Con la perdita della vista, ha perduto anche la manualità nel disegno?
«Disegnare era per me il modo di coltivare personaggi, storie che mi divertivo a reinventare. Da Betty Booop o Poldo di Braccio di Ferro. Mi piaceva molto perché lo facevo sin da quando avevo 7 anni. La cancelleria era il mio negozio di giocattoli. Matite, penne, colori ad olio, tempera, erano i miei giochi preferiti. Li ho provati tutti senza mai raggiungere livelli interessanti dal punto di vista artistico! Era, appunto, come continuare un gioco che avevo cominciato da ragazzo e forse proprio per questo mi manca così tanto».

 

 

 

La casualità ha voluto che lei abbia finito la sua carriera in Rai il 29 febbraio del 2020. Proprio quando stava iniziando una nuova era per il mondo con la pandemia...
«Sì, ho compiuto 40 anni in Rai al Tg1, dove sono rimasto per tutto il tempo, quattro anni fa, quando ho seguito il mio ultimo Sanremo. In quell’occasione Fiorello e Amadeus mi hanno dedicato un momento che ricorderò per tutta la vita. Sono entrato in platea con mia moglie mentre tutto il pubblico applaudiva. È stato davvero molto commovente. Un gesto di grande affetto nei miei confronti».

Lei è considerato anche un’icona del giornalismo buonista Ma davvero in 40 anni da cronista non ha mai dovuto raccontare di un artista che non le piaceva?
«Ma certo che mi è capitato. Quando c’era qualcosa che non mi piaceva ho sempre usato l’arma dell’ironia».

Ha iniziato intervistando De Gregori. Vede un suo erede all’orizzonte tra i nuovi cantautori?
«Gli eredi si misurano col tempo. De Gregori lo considero uno dei miei artisti preferiti in assoluto. Proprio lui ha scritto una delle canzoni più belle che siano state dedicate alla cecità. Si intitola Santa Lucia. Pregherò del grande Adriano Celentano è stata la prima canzone che la musica leggera italiana ha dedicato a una persona non vedente. Poi ce n’è una di Paolo Conte, si intitola Jimmy, ballando, dedicata al grande musicista Jimmy Vilotti, scomparso proprio pochi giorni fa. Ci sono loro due in un ristorante e uno dice all’altro, guardando due donne: ma tu ci vedi fin là?».

Siamo nel 25° anniversario della scomparsa di Fabrizio De André. Ha dei ricordi che la legano a lui?
«Ho avuto la fortuna di fare tante interviste a Fabrizio per Tv7. L’ho sempre considerato un vero poeta. Alla fine di ogni incontro con lui uscivi migliore di come eri entrato».

Stasera sarà a Milano. La città di un’altra grande poetessa a cui lei fu molto legato: Alda Merini.
«Alda mi ha sempre aperto casa sua. In una città, Milano, che amo molto. È la città dove ho studiato, alla Cattolica. Dove ho incontrato mia moglie e grandi artisti come Giorgio Gaber, Enzo Jannacci, Dario Fo, la stessa Merini o Guido Crepax. Ho vissuto momenti belli nella redazione di Linus con Oreste Del Buono e Fulvia Serra, con Hugo Pratt».

Nei tg, nella tv di oggi, esiste un nuovo Vincenzo Mollica, qualcuno che percepisce come suo erede?
«Questa è una domanda che non deve fare a me. La faccia ai colleghi più giovani, io non so risponderle». 

 

 

 

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