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Vespa e Churchill sotto accusa per il vino

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Marco Patricelli
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Chiedere all’oste se il vino è buono è come chiedere a Bruno Vespa se il vino fa bene. Risposta affermativa scontata per il primo e altrettanto per il giornalista abruzzese che nella sua masseria in Puglia produce il nettare di Bacco e non di rado si cimenta come esperto di marchi, bottiglie e qualità. La sua sortita “scientifica” sugli effetti benefici di un bicchiere di vino ha suscitato reazioni di diverso tenore come quella estrema dell’immunologa Antonella Viola che in maniera radicale asserisce che invece «fa rimpicciolire il cervello». Ecco, forse il cervello andrebbe attivato prima che rimpicciolisca per qualsivoglia causa. Il vino, come la birra, non è un diabolico mezzo per falcidiare la popolazione mondiale, ma un’espressione culturale e di civiltà. Gesù spezzò il pane e offrì il vino ai discepoli nell’ultima cena non per far restringere il loro cervello ma per allargare il cristianesimo all’umanità col concetto del sacrificio del corpo e del sangue. E tanto per far capire come la pensasse, in precedenza a Cana aveva trasformato l’acqua in vino, mica in una bibita analcolica.

PATRIMONIO DELL’UOMO
La vigna, l’uva e il vino sono elementi reali e simbolici della dottrina cristiana perché appartengono al patrimonio dell’uomo. Dal libero arbitrio al buon senso il passo è breve. Nella cultura romana esisteva il diritto di baciare la moglie, ma lo ius osculi serviva per capire se avesse bevuto vino, perché alla donna era precluso in quanto si riteneva che l’alcol allentasse i suoi freni morali. Lo sapevano gli antichi, al di là di ogni opinione sessista, e lo sanno i contemporanei. I grandi bevitori sono sempre esistiti, ma come eccezione, e comunque tutt'altro che eccezionalmente non soffrivano di restringimento del cervello.

Winston Churchill, che aveva il bicchiere facile almeno quanto la bottiglia, fu abbastanza lucido da capire subito il pericolo che arrivava da Adolf Hitler, da combatterlo e da vincerlo con sobrie e sofferte decisioni epocali. E campò fino a novanta anni. Per inciso, il Führer era non solo astemio, nonostante i deliri di onnipotenza, ma pure vegetariano, quindi sulla carta prototipo di morigeratezza. E che dire di Ernst Hemingway, uno dei più grandi scrittori del Novecento, Premio Nobel? Si dirà: ma si uccise sparandosi in testa col fucile. Che soffrisse di restringimento del cervello, però, è arduo da sostenere. Dando un colpo al cerchio, dopo quello alla botte del vino, i dati dell’Organizzazione mondiale della sanità parlano di oltre 2,5 milioni di morti l’anno nel mondo per cause legate all’alcol, ovvero il 4,7% dei decessi. Ribaltando i dati, significa che c’è un 95,3% che muore per altre cause: la fame, a esempio, è un flagello di molto peggiore nel terzo e quarto mondo, ed estremizzando il concetto si dovrebbe sostenere che chi insegue diete radicali che ne mettono a rischio la salute probabilmente qualche restringimento ce l’ha, e non necessariamente al cervello.

La scienza, insomma, non fornisce un’equazione matematica perfetta, che basta applicare per avere sempre lo stesso risultato. Paradossalmente anche bere troppi litri d’acqua al giorno porta a gravi scompensi, o mangiare sempre lo stesso cibo sulla carta dietetico e salubre, o appunto mangiare e bere in quantità esagerate che gli esperti non sempre possono quantificare con esattezza. La stessa scienza sostiene che moderate quantità di vino apportano benefici fuori della portata degli astemi (in Italia si dichiara tale poco più del 40% della popolazione), soprattutto per quanto riguarda cardiopatie, rischio ictus e persino diabete. Il campo minato della salute prevede pure che in dosi non moderate i problemi per chi consuma alcool sono di varia natura, fisica e neurologica, anche con conseguenze estreme. Il bicchiere di vino, nella cultura italiana e mediterranea, è convivialità e condivisione. I contadini offrivano a chi entrava in casa quello prodotto da loro, aspro, secondo la tradizione, in bicchieri rigorosamente piccoli perché non ne andava sprecata una goccia, e perché nonostante l’iconografia dei beoni campagnoli, se ne consumava il giusto, senza sapere neppure quale fosse. I fiaschi che lo contenevano una volta erano impagliati, perché non si dovevano rompere all’urto per preservare quello che c’era dentro, il prezioso distillato dell’uva. Le regole, se devono proprio esserci com’è giusto che sia, le aveva già fissate Apuleio nel II secolo: «Una coppa per la sete, due per l’allegria, tre per la voluttà e quattro per la follia».

REGOLE AUREE
Catullo poeticamente e prosaicamente aveva fissato un altro limite: l’acqua poteva andare dove volesse purché non dentro a un bicchiere di vino, per non guastarlo. Insomma, il vino è una bevanda ed è pure un piacere della vita. E come tutti i piaceri della vita va goduto, assaporato, bevuto a piccole dosi. È una regola aurea, e vale sempre: il farmaco, lo dice l’etimo, cura le malattie oppure uccide come un veleno. Il vino migliora la qualità della vita, e aiuta nei momenti di riflessione (esiste quello di meditazione) e pure in quelli di difficoltà. Mai nessuno è riuscito ad affogare le amarezze nell’acqua. E poi, lo dice anche il proverbio che fa accantonare pure i personaggi storici con la debolezza del buon bicchiere: pane al pane e vino al vino. Se il restringimento del cervello fosse prerogativa del vino, avremmo risolto il problema della stupidità che affligge il genere umano in tutte le epoche, correggendo o impedendo gli errori e gli orrori degli uomini sobri. La salute prima di tutto, e quando c’è la salute c’è tutto. Ma proprio il requisito primario della qualità della vita si esprime nel brindisi col tintinnare dei bicchieri: la stessa formula prosit viene dal latino “pro sit” e l’auspicio di buona e lunga vita in salute è uguale in tutte le lingue. In alto i calici, allora. Con moderazione, anche per dimostrare che il cervello non si è ristretto.

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