Pippo Baudo, Lino Banfi: "Della classe '36 resto solo io"

di Leonardo Iannaccilunedì 18 agosto 2025
Pippo Baudo, Lino Banfi: "Della classe '36 resto solo io"

6' di lettura

Spira un vento di amarezza in questi giorni di vacanza di Lino Banfi. La notizia della scomparsa di Pippo Baudo, amico e fratello di tante avventure in televisione e di serate felici, ha colto di sorpresa questo ragazzo di 89 anni in una serata d’agosto, lontano dalle luci della ribalta. Il vento della Sardegna ha riempito di tristezza il cuore di Lino che accetta di ricordare su Libero Baudo.

Lino, chi era per lei Pippo?
«Prima di tutto un amico e un fratello di scena. Il suo addio alla vita mi ha riempito di tristezza. Mi sono messo a ricordare tutti i momenti passati a lavorare insieme, lui siciliano e io pugliese. Ci univa anche la nostra meridionalità».

Se ne è andato un gigante.
«La televisione era lui, Sanremo era Pippo, soprattutto. Quanti artisti ha aiutato a diventare famosi, era generoso, altruista».

L’ultima volta che l’ha sentito?
«Era giugno, gli ho telefonato per fargli i complimenti per il suo 89esimo compleanno. Era un po’ giù e allora ho cercato di farlo sorridere: Pippo, io ne faccio 89 a luglio, mi hai preceduto verso i 90! Ma sentivo che non era al top, come sempre. Ha detto: “non è che si sta poi troppo bene in questa stagione della vita”».

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Era del 1936, come lei...
«Guardi, in ordine di nascita in quell’anno sono nate quattro grandi “B”: Baudo a giugno, Banfi a luglio, Berlusconi a settembre e Bergoglio a dicembre. Gente tosta, di carattere. Ebbene, di quelle quattro B sono rimasto solo io».

Pippo era il Festival, ne inventò persino il jingle: Sanremo è Sanremo.
«Per forza, perché Baudo era Baudo!».

Nei giorni scorsi qualcuno ha diffuso un video dove lei compare, o meglio si vede il suo volto e si sente la sua voce, entrambi artefatti con l'intelligenza artificiale, che pubblicizzano una crema contro i dolori. Una truffa.
«Una roba assurda. Non posso permettere che la mia identità personale, umana e professionale, apprezzata da tanti amici come quella di un serio nonno di famiglia, sia volgarizzata per promuovere una pubblicità meschina tesa a strumentalizzare la credulità popolare al fine di perpetrare un futile inganno».

Ha già preso provvedimenti?
«Ho già incaricato il mio avvocato Giorgio Assumma di intraprendere le opportune iniziative legali in tutte le sedi competenti anche a livello internazionale, affinché i colpevoli e i loro intermediari vengano severamente puniti».

Passiamo a cose più liete. Arrivato alla terza età, lei continua comunque a lavorare....
«Sì, ma la correggo: a 89 anni sto entrando nella quarta età se non è la quinta. Ho appena finito di girare delle belle pose nel film di Pio e Amedeo».

Pugliesi come lei.
«Sì, ma amici veri: tempo fa girai uno spot per la Tim dove terminavo dicendo “Porca puttena”, che è un po’ il mio cavallo di battaglia. E via le polemiche dei benpensanti, in televisione non era opportuno dirlo secondo costoro».

Che cosa c’entrano Pio e Amedeo?
«Non li conoscevo ma durante una serata in Rai all’Arena di Verona citarono quella polemica e invitarono i 12.000 presenti, per solidarizzare con me, a dire in coro “Porca puttena”. Da lì nacque la nostra amicizia».

Lei si diverte ancora quando arriva il momento di un ciak?
«Tremendamente. Una ventina di anni fa avevo perso la fiducia in me stesso dopo il successo di Nonno Libero. Stavo invecchiando, perdevo tutti i capelli, ingrassavo e mi dicevo: ho 70 anni e non sono certo Richard Gere. Che faccio? Non mi amavo più».

Oggi è tutto passato?
«Sì, anche se non ho più l’altra metà di me stesso: Lucia. L’ho persa dopo 70 anni di vita insieme. Devo tutto a mia moglie».

Il successo?
«Certo. Agli inizi facevo davvero la fame, ero pieno di debiti e stavo per mollare l’idea del cinema. Fu lei a lasciare il negozio in Puglia: via, partiamo, andiamo a Roma, ce la farai».

Avete conosciuto la vera povertà.
«Un giorno mi feci ricoverare in ospedale fingendo di avere un problema alle tonsille per stare in corsia e, finalmente, mangiare qualcosa. Ebbene, mi tolsero le tonsille ma, dopo l’intervento, scoprii che non potevo mettere in bocca nulla per la convalescenza. Volevo piangere».

La sua vita è un romanzo.
«Che ho avuto il piacere di raccontare in un docufilm, perla Rai, quello che chiamo un largometraggio, vista la mia pancia. Si intitola Lino d’Italia, storia di un italieno, con la “e”».

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Nel film ci sarà anche l’incontro celebre con Totò?
«Negli anni ’50 e ’60 quando aspiravo a entrare nel mondo dello spettacolo, lo incontrai e fu decisivo. Fu lui a convincermi a cambiare nome: essendo io battezzato Pasqualino Zagaria pensavo a Lino Zago. E il Principe: per carità, il diminutivo va bene nel nome, mai nel cognome! Porta malissimo. Così in un registro scolastico vidi il cognome Banfi. E tutto ebbe inizio».

L’avanspettacolo è stato una scuola di vita professionale, vero?
«Certo. L’avanspettacolo è stato un marciapiede unico. Oppure, se preferisce, una medicina per risolvere certe situazioni sul set o in tv. Una battuta ha salvato tante situazioni ed è stata nella palestra dell’avanspettacolo che ho appreso certi trucchi».

Dopo Totò, un altro incontro importante: Renzo Arbore.
«Un vero amico, lo conobbi negli anni ‘60 a una trasmissione di successo, Speciale per voi. Poi, negli anni ‘90, la Rai ci volle insieme ne Il caso Sanremo. Un successone».

Paolo Villaggio?
«Un genio che ha inventato una maschera unica: Fantozzi».

Gli anni ‘80 sono stati quelli dei film scollacciati. Un flash?
«Erano film girati in fretta ma con professionalità. Incassavano un sacco di soldi e piacevano. Non ai critici, ma ai produttori. Vorrei, a tal proposito, ricordare Laura Antonelli e Nadia Cassini, oltre ad Alvaro Vitali».

La consacrazione arrivò grazie a Nonno Libero di Un medico in famiglia.
«Ho sempre pensato sia stata una serie televisiva unica perché univa l’intera famiglia come poche altre fiction nel mondo. Dalla bambina al nonno, una sorta di varietà recitato per tutte le età. Siamo andati avanti 18 anni».

I ragazzini di oggi la amano molto per i video sui social di Oronzo Canè, l’allenatore nel pallone.
«Mi diede l’idea Niels Liedholm, allenatore della Roma negli anni ‘80, che incontrai per caso in aereo. L’allenatore nel pallone fu un successone, il primo vero film di cassetta sul calcio».

Come nacque il nome Oronzo Canà?
«Oronzo era il nome di un vero allenatore del Bari, Oronzo Pugliese. Canà perché mia moglie nel film si chiamava Mara e, quindi, era Mara Canà che è il nome dello stadio di Rio de Janeiro. Morale, per il film andammo a girare un mese in Brasile. Bello, no?».

Il padre delle spose, invece, fu un suo film che fece scalpore, 20 anni fa. Affrontava la tematica omosessuale.
«Provocò reazioni strane perché trattava l’amore di due donne ma andò su Raiuno e qualcuno con le bende agli occhi, gridò allo scandalo. Oggi tutti a parlare di parità di genere quasi avessero scoperto l’acqua calda, noi lo proponemmo in quel film che, fra l’altro, era pure bello».

La comicità è una cosa semplice e diretta. Una volta disse: non ci vuole troppa cultura.
«Ed è vero, il comico deve essere puerile nel senso più romantico del termine. Pensate a Stanlio e Ollio».

Alcune strutture mediche utilizzano il suo film «Vieni avanti cretino» per stimolare i muscoli facciali di chi soffre del morbo di Parkinson. Una fake news?
«No, tutto vero. Alcuni medici applicano questa cura. Uno mi ha detto: Banfi, complimenti, lei è diventato una terapia. Beh, sono belle soddisfazioni, no?».

Il complimento più bello?
«Quando al ricevimento in Vaticano, Papa Francesco mi ha detto: “Banfi, lei ha inventato un genere, un linguaggio”. Tra me e me ho pensato con una punta di malcelato orgoglio: allora mi sento un Banfis Ri dens».

C’è un comico per cui vale il prezzo del biglietto, oggi?
«Non perché è pugliese ma Checco Zalone ha una marcia in più. Me ne sono accorto lavorando suo film Quo vado? Ha talento sto ragazzo, ho subito pensato».

Quando le dicono che ha fatto la storia del cinema, cosa pensa?
«Che, al massimo, ho fatto la geografia!».

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