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Spettacoli e fondazioni, è ora di un codice unico

Il giardino dello spettacolo italiano non è mai stato così rigoglioso, ma oggi chiede una manutenzione vera
di Enrica Stinchellilunedì 27 ottobre 2025
Spettacoli e fondazioni, è ora di un codice unico

3' di lettura

In questi ultimi giorni spuntano uno dopo l’altro i comunicati sindacali: una fioritura che non si vedeva da anni, sbocciata sulla scia delle tensioni veneziane attorno al Teatro La Fenice. Il giardino dello spettacolo italiano non è mai stato così rigoglioso: tra teatri storici, orchestre, compagnie di danza, festival e carnevali, nascono talenti, voci, momenti di pura magia. Ma, se ci si avvicina, tra i fiori più belli spuntano anche erbacce tenaci: norme sovrapposte, burocrazia intricata, fondazioni liriche che arrancano tra esigenze artistiche e vincoli gestionali, lavoratori intermittenti che non trovano collocazione stabile, e una trasparenza che, a volte, resta un sentiero tortuoso.

Per anni si è risposto «va bene così», perché il teatro e la musica sono micce emotive, non catene di montaggio. Ma oggi quel giardino chiede una manutenzione vera : ecco perché entra in scena il Codice Unico dello Spettacolo. Spauracchio o opportunità?

Questa riforma, avviata con la legge delega 15 luglio 2022 n. 106, vuole mettere ordine in un sistema normativo che ha superato da tempo il secolo di vita. Il Codice riunisce in un testo unico tutto ciò che riguarda teatri, fondazioni lirico-sinfoniche, musica, danza, spettacoli viaggianti, carnevali e rievocazioni storiche.
Introduce una revisione dei contratti di lavoro — riconoscendo la natura discontinua dell’attività artistica — e definisce regole più chiare per l’equo compenso dei freelance.

In parole semplici: prendere ciò che oggi è sparso e confuso, e dargli finalmente un ordine. Ed è qui che molti alzano la voce. Le sigle sindacali del Teatro alla Scala, sulla scia della crisi veneziana, denunciano un rischio: «Meno autonomia per le fondazioni, più rigidità, più burocrazia». Ma - e qui occorre lucidità quella paura potrebbe nascondere anche una resistenza al cambiamento più che un pericolo reale. Perché il giardino, lo abbiamo detto, ha bisogno di qualche benefica potatura. E la potatura, se ben fatta, non uccide le piante: le fa rifiorire.

Le fondazioni liriche operano in un sistema stratificato, con regole nate nel Novecento e adattate a colpi di deroga. I lavoratori vivono una precarietà endemica, tra contratti a progetto, supplenze e “scritture” occasionali. Il riordino promette di riconoscere questa realtà, e di armonizzare criteri e tutele senza negare la libertà creativa.

Per gli enti: più chiarezza nei contributi pubblici, più trasparenza in generale, regole omogenee per teatro, danza e musica. Peri lavoratori: tutele coerenti, compensi più equi, contratti calibrati sulla discontinuità. Per il pubblico: garanzia di qualità, uso corretto dei fondi, continuità delle stagioni. Naturalmente, tutto dipenderà da come sarà scritto il decreto attuativo. Se prevalesse la logica ragionieristica sulla sensibilità artistica, i timori avrebbero ragione d’essere. Mala legge delega parla chiaro: lo scopo è «promuovere produzione, innovazione, fruizione e qualità artistico-culturale». C’è tempo per farlo bene: la bozza del Codice è già stata presentata alle Regioni, e la delega prorogata fino al 31 dicembre 2026.

Questo significa dialogo, confronto, possibilità di migliorare il testo prima che diventi legge. Dunque, più che un mostro burocratico, il Codice può essere la potatura necessaria per rendere più forte e vitale il sistema culturale italiano. Riforma non deve essere parola di paura, ma di equilibrio: rigore e cura. Rigore nei conti e nella governance, cura per l’arte e per chi la fa vivere ogni giorno.

Solo così il nostro giardino tornerà non solo in fiore, ma in ordine: le erbacce tolte, i fiori più belli in luce, e i sentieri finalmente aperti al talento. Perché la festa - che è l’anima stessa dello spettacolo - non può vivere di fuochi d’artificio: ha bisogno di radici sane, di terreno fertile e di mani che sappiano coltivarlo.