Al povero ragionier Fantozzi tributarono 92 minuti di applausi liberatori, al cast della Scala appena undici, ma l'enfasi e la retorica hanno unito “La corazzata Kotiomkin” rivisitata da Luciano Salce e “Una Lady Macbeth del distretto di Mcensk” dell'arrembante regista russo Vasilij Barkhatov che si è basato sulla versione del 1934. Ovazione acritica a lui, che ha deciso di ambientare la vicenda di amore e morte, sangue e satira, negli Anni '50 del Novecento, indifferente agli anacronismi come a esempio la polizia da lui rappresentata con la stella rossa sovietica che si diletta nel libretto (la novella di Nikolaj Leskov è datata 1865) nella caccia al “socialista”. Iperboli e apoteosi agiografiche tv per l'allestimento dell'apertura della stagione della Scala di Milano, colate di melassa negli entre anct delle quattro parti nella diretta Rai, con inserti pertinenti, impertinenti e nulladicenti.
Ci mancava solo il servile ragionier Filini che per ingraziarsi Guidobaldo Maria Riccardelli esaltava l'occhio della madre e il montaggio analogico e poi implorava di rivedere tutto daccapo, magari dopo il primo atto, ma in compenso c'erano tutte le parafrasi sul sublime capolavoro assoluto e imperdibile, di cui forse fino al giorno prima neanche si conosce l'esistenza. Proiezione di un destino cinico e baro che trascinò davvero sulle montagne russe Dmitrij Šostakovic, vittima del regime staliniano e contemporaneamente suo complice e carnefice di sé stesso, e di cui in occasione della prima scaligera con rulli di tamburo e squilli di tromba- fuori partitura - si è celebrato il rito pagano e mediatico dell'evento. Adesso che Riccardo Chailly ha deposto la bacchetta sul leggio, ora che il day after si prostra al ricordo, qualche riflessione su quello che si è sentito e si è visto dalla città ambrosiana, secondo un copione scritto e secondo una recita a soggetto per riempire buchi e spazi. Gli antichi ammonivano che a volte un saggio tacer un dotto parlar avanza d'assai, ma vuoi mettere il brivido blu della diretta Rai dal tempio della lirica che ti dà i quarti di nobiltà anche senza lombi o capilombi?
Prima alla Scala, vip fra sobrietà e audacia. Mahmood alla messicana
E quando c’è troppa politica, e quando ce n’è poca. E quando è troppo sobria, e quando ...Da contronarrazione la sagra delle banalità tra stucchi e brillocchi di cultura e mondanità. Più la seconda della prima, con il disinvolto osanna a 'sto Šostakovic passato a miglior vita mezzo secolo fa, che nella casa di Giuseppe Verdi ha spodestato il dolce suono del sì con le asperità slave del russo. Qualcuno avvisa la Rai, radio e tv, che il nome del compositore sovietico non si pronuncia come si scrive, indipendentemente dalla fedeltà di traslitterazione dal cirillico. Ma le perle si sono inanellate come neanche da Tiffany dopo la colazione. Per Mahmood, che di solito nel tempo libero fa l'analisi formale delle partiture di Šostakovic , “Lady Macbeth” è «incredibile», forse come la pace nel mondo, e «una botta così forte» che neanche in una canzone di Marracash: una botta (davanti alle telecamere Rai) e via (dal foyer) per sorbirsi gli altri atti. Achille Lauro ha tutto scritto nel volto. Pierfrancesco Favino, attore e icona del cinema impegnato, si abbandona alla sensazione del farsi «trasportare», aggiungendo poi di avere «altre aspettative dalla serata», ovviamente senza precisare quali.
In assenza audio e video di tutti coloro che nel furore antirusso giubilarono il direttore d'orchestra Valerij Gergiev, o forse convertiti alla russofilia di maniera dell'insalata russa operistica di Šostakovic, nel dribbling di Fabio Capello inguainato nell'abito da sera, ecco l'imperdibile duetto sul trespolo tra due teneri virgulti del giornalismo italiano, l'immarcescibile Bruno Vespa dell'Aquila e Antonio Caprarica del Leone Britannico. Il primo in papillon nero, il secondo in vermiglio inglese; il primo con sguardo vitreo fissato sulla telecamera si incunea nelle carni dell'opera come in un filetto al sangue da abbinare a un suo vino di masseria, il secondo in assenza della guardia reale di Sua Maestà naviga a vista ma col consueto aplomb sulla guardia rossa e le ambiguità di Šostakovic e del rapporto con Stalin.
L'unico che dice esattamente quello che pensa e che ha pensato bene a quello che dice è Giorgio Pasotti, che con realismo ed equilibrio ripudia frasi fatte e banalità nella cornice glamour di abiti femminili di alta sartoria dai due etti di peso e della caccia all'inquadratura per due secondi di celebrità. «Sono un curioso – commenta – e qui si viene per imparare». Standing ovation, anche più di undici minuti. Lo stesso tempo dell'arrabbiatura di Bruno Vespa con la Rai per non avergli realizzato il plastico di Casa Izmailov scenario dell'avvelenamento di Boris e dello strangolamento del figlio Zinovij, da mostrare in diretta.




