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Rai travolta dalla bufera: cosa appare sul sito, lo spot che scatena la polemica

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Andrea Cappelli
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L'associazione si chiama "A buon diritto", ma i toni utilizzati, soprattutto nel commentare il "caso Uva" tradiscono il nobile proposito contenuto nel nome. Procediamo con ordine: ieri pomeriggio al Maxxi di Roma si è svolto un evento dedicato al ventennio di attività della onlus, fondata da Luigi Manconi e diretta da Valentina Calderone. Oltre alla partecipazione del presidente della Repubblica Sergio Mattarella e della senatrice a vita Liliana Segre - che pur non presenti fisicamente hanno lasciato un messaggio scritto -, alla kermesse hanno preso parte varie personalità del mondo culturale italiano, tra cui il disegnatore Sergio Staino, il vignettista Makkox e gli attori Valerio Mastandrea, Valentina Carnelutti, Alessandro Bergonzoni, Caterina Corbi e Ascanio Celestini, che nel corso della serata hanno prestato la voce a protagonisti di alcune storie di cronaca giudiziaria italiana come Stefano Cucchi, Federico Aldrovandi, Mimmo Lucano e altri.

 


LA VICENDA
A destare stupore è stato però il modo con cui l'associazione, in un comunicato stampa pubblicato sul sito di Rai Cultura, ha accostato vicende drammatiche e molto diverse tra loro al caso di Giuseppe Uva, artigiano di Varese che la notte tra il 13 e il 14 giugno 2008 fu fermato in stato di ebbrezza da due carabinieri per poi essere trasferito dalla caserma all'ospedale cittadino per un trattamento sanitario obbligatorio, dove morì la mattina dopo per un arresto cardiaco. Ora, il comunicato apparso sul sito Rai annunciava che durante la serata di ieri sarebbe intervenuta anche Lucia Uva, sorella di Giuseppe, «deceduto in seguito a violenze e tortura da parte dei carabinieri che lo avevano arrestato». Un concetto rimarcato anche in un post Facebook apparso nella pagina dell'associazione, dove si fa riferimento a «storie di persone i cui diritti sono stati violati, che sono diventate patrimonio comune: da Stefano Cucchi a Federico Aldrovandi, da Andrea Soldi a Luca Ventre a Giuseppe Uva a troppi altri [...]». È quindi evidente che, tanto nel post social quanto nel comunicato stampa, relativamente al "caso Uva" si dà per scontata una versione dei fatti che non corrisponde minimamente a quanto stabilito processualmente. Processo che si è infatti concluso con l'assoluzione dei due carabinieri in questione che hanno eseguito l'arresto, e di altri sei agenti di polizia: assoluzione in tutti i gradi di giudizio, beninteso. A una prima assoluzione degli imputati da parte della Corte d'Assise di Varese il 15 aprile 2016, infatti, ne è seguita una seconda il 31 maggio 2018 da parte della Corte d'appello di Milano, poi confermata l'8 luglio 2019 dalla Cassazione. I legali della famiglia Uva hanno comunque deciso di andare avanti, presentando nel 2020 un ricorso giudicato ammissibile alla Corte europea dei diritti umani, che dovrà esprimersi sulla vicenda.

 

 

GLI AVVOCATI
Certo è che, alla luce dei fatti, presentare il "caso Uva" come una storia di violenze e torture da parte di uomini dello Stato rappresenta una forzatura inaccettabile, che ribalta la verità processuale. Interpellato da Libero, Luca Marsico (avvocato che, assieme ai colleghi Duilio Mancini, Fabio Schembri e Piero Porciani, ha assistito i due carabinieri e i sei poliziotti) descrive questa narrazione come «gravemente diffamatoria», aggiungendo che «nei prossimi giorni valuteremo ogni opportuna azione». In quel comunicato - conclude Marsico - «si dice una cosa infondata, alla luce del fatto che la sentenza è passata in giudicato e ha sancito l'innocenza dei sei poliziotti e dei due carabinieri coinvolti nel processo».

 

 

UOMINI DELLO STATO
A esprimersi sulla vicenda è stato ieri anche l'ex ministro Carlo Giovanardi, stigmatizzando la «sponsorizzazione» (da parte di Rai Cultura) di una manifestazione nel cui invito si descrive il "caso Uva" nei modi sopra descritti. «Tra i diritti- rimarca Giovanardi - dovrebbero essere annoverati anche quelli dei servitori dello Stato, che non possono continuare a essere criminalizzati e diffamati sia quando vengono condannati sia quando vengono assolti con formula piena». Ben vengano quindi le manifestazioni, le associazioni a tutela dei diritti umani, le richieste di giustizia. Ma di fronte a situazioni delicate che coinvolgono uomini dello Stato, i membri delle istituzioni e la tv pubblica dovrebbero mostrare maggior cautela. A meno che non valga il principio che carabinieri e poliziotti non debbano godere nemmeno del riconoscimento della loro innocenza da parte della giustizia. Allora che garantismo è?

 

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