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Modena, Avellino, Cesena e Bari. Questa serie D è più nobile della C

Gino Coala
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Se uno ha una certa età e ha ancora una parte di testa, di memoria forte fissata sugli album delle figurine, sugli almanacchi del calcio dei tempi suoi, rischia di andare un po' in confusione. Perché se sfoglia le gazzette sportive, incoccia le pagine dove si comincia a parlare di serie minori e legge i nomi delle squadre di cui si parla in trafiletti sempre più piccoli, non ci crede, può legittimamente pensare a clamorosi errori di stampa. Le pagine, anzi, la pagina della Serie D, ospita squadre viste per anni allo stadio e in tv: il Bari, l' Avellino, il Cesena, la Reggiana, il Modena, il cuore del calcio provinciale - e non solo, perché a definire una piazza come Bari provinciale ci vuole una certa dose di coraggio - che ha caratterizzato due o tre decenni dell' organico della Serie A, trasferte che in certe fasi storiche potevano pure indurre qualche timore tra i tifosi delle squadre altolocate. Al Manuzzi di Cesena, giusto per fare un esempio, si sono giocati scudetti, qualcuno ha lasciato punti pesantissimi, senza considerare il fatto che un certo anno - 1975/76 allenatore Pippo Marchioro, capitani in campo Frustalupi e Cera - i romagnoli si erano issati per contro proprio in Coppa Uefa, allora roba serissima. La Serie D che, visto che è il vertice dell' altra metà del cielo del pallone italiano, sarebbe meglio rinominare la Serie A dei dilettanti, fermo restando che di dilettantistico, nella gestione dei club che ivi militano e hanno qualche ambizione, c' è veramente poco: e anche per questa ragione, risulta quasi meglio di una Lega Pro ricca di sodalizi che non possono vantare tradizione, che si esibiranno in stadi e stadietti (quando non costretti a emigrare per mancanza di requisiti nel loro impianto) che non hanno mai ospitato piedi preziosi (tipo il Gozzano), e che però, sicuramente, hanno portato avanti una gestione più saggia e intelligente. Perché è chiaro che il prestigio della D nasce in realtà dallo sfacelo, dalla raggelante, continua catena di fallimenti di club finiti in mani sbagliate, incredibilmente incapaci di sfruttare una base di tifo e di interesse che dovrebbe mantenerli a galla come minimo in Serie B. Tant' è, e allora ecco un campionato che - quando finalmente a fine mese verranno confermati organici ed emessi i calendari - si porta dietro anche altre maglie viste nel passato in Serie A, dal Mantova al Lecco, dal Messina al Como e al Varese (ancora da confermare), e ancora il Taranto, la più grande città italiana che non abbia mai conosciuto il massimo palcoscenico, ma che nei suddetti album era una presenza fissa. Uno spettacolo davvero senza precedenti, che quasi varrebbe la pena di godersi: se non che il pensiero volerebbe subito a immaginare quali saranno le decadute dell' anno prossimo, vittime di un "morbo della provincia" che lo sgangherato calcio italico non riesce (o non vuole) debellare. di Andrea Saronni

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