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Diego Simeone, Giuseppe Cruciani sta con el Cholo: "Il gestaccio alla Juve? Perché non va attaccato"

Gino Coala
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Non toccate Diego Pablo Simeone, cari tifosi della Juve. A quell' uomo diventato nel tempo più asciutto e magro di quando giocava a pallone ruminando chilometri di prato, qualsiasi bianconero dovrebbe rendere omaggio come a una sorta di divinità del football. Chi non ricorda il 5 maggio 2002? Gli stolti imbecilli insultatori non sanno che fu il Cholo (tra gli altri, ma soprattutto lui) a consegnare alla Juve uno degli scudetti più belli della sua storia. Mentre Del Piero e soci vincevano senza problemi a Udine, all' Olimpico di Roma si consumò l' ormai arcinota apocalisse interista. Ecco, Simeone raccontò così quel tricolore negato ai suoi ex compagni dell' Inter: «Quando a fine settembre mi ruppi il crociato, cercai di anticipare in ogni modo il mio rientro. Un giorno mi chiamò mia mamma dall' Argentina consigliandomi di mangiare cartilagini di zampe di maiale. Le dissi: "Ma che schifo, chi ti ha suggerito questo rimedio?" Rispose: "È un vecchio rimedio degli indios, ascoltami"». RIMEDIO INDIO Diego le dà retta: «Era roba da vomito, ma le mangiai. Dopo sei mesi ero in campo. Tutto questo coincise con l' unico goal che non avrei mai voluto segnare. Quello del 5 maggio, il goal del 3-2 che simbolicamente tolse lo scudetto all' Inter. Per me fu una tragedia, dopo il goal volevo quasi sparire dal campo, ma ero un professionista e giocavo per i colori biancocelesti. Non esisteva consegnare, praticamente senza giocare, uno scudetto all' Inter». Finì 4-2 per la Lazio, con lacrime di Ronaldo (quello brasiliano) annesse e questo è Simeone, amici juventini. Certo, non si chiede alle bestie che hanno riempito di follie i profili social dell' allenatore dell' Atletico di fare un ripasso di storia. LE DUE VERSIONI E nemmeno di essere masochisti apprezzando quell' esultanza scomposta e feroce, le mani portate nelle parti intime afferrandole, che può avere mille significati, e ne abbiamo sentite tante in questi giorni. C' è la tesi giustificazionista, cioè «abbiamo i coglioni» rivolto alla propria fazione; e quella colpevolista, un bel «sucate» all' indirizzo della Juve. Chissà. In Italia, maglia laziale, lo fece un paio di volte e non erano certo omaggi per gli avversari. Ma questo è Simeone, dicevamo. Prendere o lasciare. Io prendo. Perché è l' essenza pura del calcio, quel tiè rivolto all' avversario oppure l' incitazione mani al cielo alla propria folla. Ci sta. Ci sta lo sberleffo duro al nemico di turno, che però finisce quando si placa la disfida e ci si scambia un segno di pace con la stessa mano che prima roteava. Senza tutto questo, senza questa diversità (Allegri che sbatte la giacca per terra e urla ai suoi imbestialito, Mourinho che fa quello che fa, Ancelotti quasi impassibile, Mazzone che si fionda sotto la curva atalantina) non esisterebbe più il gioco del pallone, se non vogliamo ridurlo al Var, alle plusvalenze e ai milioni dei diritti tv. USCITE A VUOTO Non so cosa abbia portato il bravissimo Fabrizio Bocca, su Repubblica, uno di solito poco incline al politicamente corretto, a definire «troglodita» Simeone per l' esultanza col pene in mano («uno che festeggia in quel modo così volgare un gol fatto dai suoi giocatori è anche un troglodita maleducato che dovrebbe essere squalificato pesantemente», ha scritto); e, ancora, ieri ho sentito su Sky un commentatore e telecronista con i controcazzi (sì, lo scrivo apposta proprio così), Riccardo Trevisani, sostenere che il Cholo «ha fatto una cosa oscena». Sussulti di perbenismo. Ma di osceno e troglodita in questa storia di meravigliosa adrenalina calcistica ci sono solo quei poveretti che hanno augurato il cancro alla figlia appena nata. Invece, lo dico agli juventini tutti, dovreste amarlo quest' uomo. E alla fine applaudirlo il 12 marzo a Torino, comunque vada. di Giuseppe Cruciani

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