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Gigio Donnarumma, "ecco cosa accadrà ai prossimi mondiali": la profezia di Bruno Conti sul futuro in azzurro

Leonardo Iannacci
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Non ha mai avuto paura di Platini o Maradona, dei giornalisti sì. Da ragazzino, quando si presentavano in ritiro, fuggiva in bagno: «Stavo chiuso anche per un'ora, non temevo le loro domande, pensavo solo di essere inadeguato nell'eloquio, di non essere all'altezza. Non avendo studiato, provavo imbarazzo con gente che manovrava le parole, la grammatica». Bruno Conti, cavaliere di Madrid 1982, ce lo racconta al vernissage dell'autobiografia Un gioco da ragazzi (Rizzoli), scritto a quattro mani con Gianmarco Menga.

Bruno, è un libro peri 40 anni del Mondiale di Spagna '82?
«Anche, ma soprattutto per raccontare ai ragazzi di oggi un mondo che non c'è più, sopratutto un calcio diverso nel quale l'umanità non era ancora stata messa in buca da social, egoismi o procuratori».

Sei cresciuto in un'altra Italia, ci racconti un flash?
«In famiglia eravamo in 9, mamma, papà e sette figli e dormivo in un solo letto insieme ai miei tre fratelli. Prima di diventare padrone della maglia numero 7 della Roma e della nazionale, per sbarcare il lunario ho fatto il muratore e ho portato in spalla bombole di gas».

Nel libro racconti che hai rischiato di diventare un giocatore di baseball.
«A Nettuno, dove vivevo, si giocava d'estate con mazza e palline e, d'inverno, a calcio. Un giorno il dirigente di una squadra di baseball di Santa Monica venne a casa, voleva portarmi in California. Avevo 15 anni. Papà rispose senza staccare gli occhi dalle fettuccine: Brunetto non si muove da Nettuno!».

 

 

Il calcio ti rapì giovane...
«Gli inizi furono tosti, la bassa statura era un problema. Mamma Secondina mi diceva: il calcio nun te darà mai da magnà».

La prefazione del libro l'ha firmata Totti: tu e Francesco rappresentate l'epos della Roma?
«In un certo senso sì: siamo gli unici due giocatori della Lupa ad aver vinto scudetto e mondiale».

La delusione più cocente?
«La Coppa Campioni persa all'Olimpico, ai rigori, contro il Liverpool. Quella volta non bastarono neppure gli amuleti di Liedholm, superstizioso in tutto».

Il tuo grande cruccio?
«L'insonnia. Nel 1982, in ritiro, passavo le notti a parlare con Tardelli, un altro Coyote. Aspettavamo l'alba ascoltando Battiato».

Viriamo al presente: passata la sbornia del derby?
«Sì. Ma la gioia resta, vincere 3-0 con la Lazio è un orgasmo. E Mourinho è incredibile. Appena arrivato, in 20 giorni ha capito tutto della città, dei tifosi. Il tecnico vincente c'è, la società progetta, i giovani non mancano».

A proposito di giovani, Zaniolo?
«"Cos'ha? Non lo metterete in discussione perché ha avuto un momento di appannamento. Viene da infortuni terribili. È un patrimonio del club. Se resterà a Roma? Chiedetelo alla società, io coordino il settore under 16».

Capitolo azzurro: domani c'è il primo bivio con la Macedonia del Nord. Il "MaraZico" di Spagna '82 come la vede?
«Dispenso ottimismo sfrenato. Ho fiducia totale in Mancini».

Ben venga questa ventata positiva, da dove spunta?
«Dalla forza del gruppo. Sono sicuro, ad esempio, che tornerà decisivo Donnarumma».

Dopo Spagna '82 e Berlino 2006, Bearzot e Lippi sono stati colpiti da una nefasta "sindrome di riconoscenza" verso i cavalieri che hanno compiuto impresa. Stavolta?
«Il calo c'è stato ma scommetto che domani rivedremo i leoni di Wembley».

Da Pellegrini a Mancini, sino allo stesso Zaniolo, potrebbero essere i giocatori della Roma a risultare decisivi...
«Una conferma che a Roma abbiamo grandi talenti».

 

 

Il calcio italiano, però, non sta vivendo settimane brillanti. Che cura propone per tornare al top?
«Un esempio da seguire è quello del Milan. Maldini e Massara hanno tracciato per i club una strada solida, tecnica e morale».

Nel 1982 Pelè la incoronò re del mondiale, ricorda?
«Diventai rosso per l'emozione. E pensare che, anni prima, durante una tournée a New York, lo incontrai e gli chiesi timidamente una foto insieme. Lui mi guardò in modo strano, pensando: ma chi è questo qui?».

Bearzot, un secondo papà?
«Davvero. Nella notte di Madrid, divorando con lui un chilo di adorate noccioline, tanto che eravamo soprannominati "le due scimmiette", mi disse; Bruno, quando ti convocai per la prima volta i giornalisti dissero che mi era venuto un "cortocircuito cerebrale". E invece abbiamo vinto il mondiale».

Lei vive da mezzo secolo sul pianeta Roma. Mai ceduto alla tentazione di abbandonarlo?
«Prima di ogni Roma-Napoli, Maradona mi sussurrava: vieni a Napoli, vieni a Napoli da me. Non ho mai dato retta a quel meraviglioso fratellino di calcio. Una volta gli sorrisi: Diego, come potrei? Prova a leggere la parola Roma al contrario...». 

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