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Qatar 2022, Luis Enrique seppellisce Guardiola: è morto il tiki taka

Leonardo Iannacci
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Tiki-taka adios. Nella notte di Doha va in scena un funerale sportivo, l'addio forse definitivo a un'idea, il saluto a qualcosa che è stato ma non sembra essere più. Colpa del fenomenale Marocco che ha messo a segno l'impresa delle imprese e ha dato una robusta spallata, facendola cadere in un burrone ideologico, a quella che era considerata sino a ieri una sorta di filosofia calcistica subliminale. Una magia che magia non è più.

Un'impresa, quella degli africani, che segna il brusco ridimensionamento del famigerato calcio tiki-taka, la tattica che ha segnato un'epoca, continua a imperare in Spagna dove le scuole calcio vivono seguendo questa filosofia tattica, ma che dovrà ora fare i conti con questa incredibile eliminazione della nazionale di quel paese, campione del mondo 2010, bi-campione europeo nel 2008 e 2012, e poi persa nei meandri di un calcio che fatica a rivincere. Un ko simile a quella che subì la nazionale italiana contro le due Coree: nel 1966 sconfitta da quella del Nord e nel 2002 umiliata da quella del Sud. Sconfitte che fanno male e chiudono, chissà, un'epoca.

 

 

 


SCHIAFFO EMOTIVO

Questo schiaffo emotivo, difatti, scuote non soltanto la nazionale delle Furie Rosse ma scolorisce un'idea di calcio, fiorita anni fa a Barcellona. In un giorno preciso, in una conferenza stampa diventata negli anni storica. Quel giorno il calcio cambiò, inesorabilmente. In meglio, secondo gli ammiratori di Pep Guardiola, lo stregone del tiki-taka. O in peggio, secondo i suoi detrattori. Nulla, da allora, è stato più come prima in Spagna e anche altrove. Alla domanda su chi schierasse al centro dell'attacco, davanti a una platea di giornalisti, quel giorno il Pep rispose, stupendo tutti: nessuno, il centravanti del mio Barca è lo spazio.


E calcio tiki-taka fu. Un calcio pieno zeppo di passaggi e passeggini, di imbucate, lesto a dividere le folle: chi lo ha subito amato ha provato maldestramente ad imitarlo, chi lo ha odiato si è rifugiato in un football più asciutto e tradizionale. Lontano da tocchetti laterali, inserimenti in quello spazio vuoto, passaggetti inutili. Il Barcellona (di Messi, Xavi e Iniesta) nel frattempo vinceva, vestendo i panni della squadra-Cannibale. E tutti a lodare, ammirati, il tiki-taka.

Mondiali, europei e molte coppe dopo, il discepolo di Guardiola che siede sulla panchina delle Furie Rosse - ovvio Luis Enrique - ha scimmiottato, in Qatar, quel gioco. Ma ha servito in tavola soltanto una versione per così dire "generica" del tiki-taka del grande Barcellona. E non per colpa dei ventenni che ha schierato: Gavi, Ferran Torres e Pedri. Il risultato finale è sintetizzabile nei numeri: un 7-0 scolastico contro il Costarica aveva illuso. Un 1-1 risicato contro la Germania aveva ridimensionato la scorpacciata. Infine, un pessimo 1-2 contro il Giappone aveva sollevato dubbi. Prologo del dolorosissimo ko negli ottavi di finale contro i valorosi marocchini. Il tiki-taka è morto? Diciamo che non sta benissimo. E aggiungiamo che dei passeggini laterali, degli scambi mortiferi e lenti visti in Qatar, non sentiremo certo la mancanza.

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