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L'Europa conta: il risveglio dal calcio italiano, ma c'è un prezzo da pagare

Claudio Savelli
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È giusto scegliere la competizione da giocare al massimo, rinunciando alle altre? La risposta è sì, è giusto, quando non hai la rosa all’altezza di più impegni. Mourinho ha scelto senza farsi troppi riguardi: puntiamo all’Europa League visto che offre un posto nella prossima Champions alla vincitrice. L’idea è che la Roma, falcidiata com’è dagli infortuni, non possa avere tutto. Fosse convinta del contrario, finirebbe per autodistruggersi. Quindi è meglio scegliere. E, nel caso, è ovvio che sia meglio provare a vincere un trofeo piuttosto che arrivare quarti in campionato, soprattutto se la posta in gioco è la stessa. Mancano due gare per l’Europa League e ne restavano quattro per il quarto posto: la coppa costa metà della fatica. In più l’andata con il Bayer Leverkusen è andata bene, si parte dal vantaggio, e la Roma non chiede di meglio dopo tre faticose rimonte. Mourinho lo fa notare dopo aver strappato un pareggio al Bologna: «I tifosi devono ascoltarmi: da tre mesi dico che questa squadra non ha le forze per arrivare in fondo a tutte le competizioni». In un mondo dove i club si prodigano per tenere i piedi in più scarpe possibili, Mou è una mosca bianca. Stavolta, però, non fa alcuna pretattica. È sincero e ha ragione.

Non è facile rinunciare ad un obiettivo e spostare tutte le fiches su un altro. Ci vuole coraggio e un certo status perché i giocatori devono capire una simile strategia, prima di seguirla. Se non la capiscono, considerano il mister un pazzo e lo abbandonano al suo destino, accogliendone ben volentieri un altro in estate. Mou ha entrambe queste caratteristiche, per questo la rosa è con lui e gioca ogni gara con un tasso di qualità variabile ma con la stessa abnegazione. La scelta del tecnico portoghese apre i nostri occhi verso un nuovo mondo: una squadra italiana preferisce una competizione europea, chi l’avrebbe mai detto qualche anno fa? A parte la Juventus, nello scorso decennio nessuna delle nostre ha preso sul serio l’Europa perché tutte credevano fosse inutile arrivare in fondo. Bastava partecipare per guadagnare i milioni sicuri e arrivederci al prossimo anno.

 


Ci siamo finalmente accorti che vale di più il percorso di crescita che ogni competizione continentale offre. Un gruppo migliora più con tredici o quindici gare europee che con 38 di campionato. Ci si misura con gli altri e ci si rende conto della propria forza. Ci si abitua a sfide ad alta tensione e a gestirla. Ci si rende conto di non essere così inferiori rispetto ai club degli altri campionati che, forse, godevano di una pubblicità migliore. Sarri sembra l’unico tra gli allenatori delle grandi ad essere rimasto indietro nel tempo, agli anni in cui l’Europa era un fastidioso impegno infrasettimanale. È vero che le società chiedono di conquistare le competizioni europee ma non di arrivare in fondo ad esse, ma questa specie di aziendalismo non va più di moda. Gli allenatori sono andati oltre, per fortuna. Vedi Pioli e Inzaghi che hanno rischiato di compromettere il quarto posto per godersi un tabellone favorevole (e probabilmente irripetibile) in Champions League. Si mettono in gioco in prima persona, rischiando il loro stesso posto, anche perché sanno che le società non giudicano più come un tempo, badando solo ai risultati. Conta il percorso e la capacità di creare valore. A questi livelli, solo giocando in Europa i giocatori migliorano. E se migliorano, valgono di più. Un modo diverso di essere aziendalisti. Un modo più intelligente e anche più divertente.

 

 

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