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Arsenal, troppe bianche in campo? Invocate le "quote nere": l'ultima follia

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Hoara Borselli
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C’è maretta all’Arsenal. Diciamo meglio: Londra è in subbuglio. Si è scoperta una cosa molto grave: la squadra femminile di calcio del fortissimo club inglese è composta interamente da atlete di pelle bianca. Qualche donna di colore c’è pure, ma sono riserve. La folta pattuglia antirazzista, presente soprattutto tra le fila dei giornalisti, ha giustamente posto il problema e sollevato un pandemonio: se le atlete della prima squadra sono tutte bianche - hanno detto - è del tutto evidente che all’Arsenal vigono regole da apartheid. Non si può andare avanti così. Occorrono leggi chiare e antirazziste. No no, è inutile che ridiate. I dirigenti della società non hanno riso per niente. Anzi si sono precipitati a redigere un documento nel quale chiedono scusa al pubblico e alla componente nera della città. Hanno ammesso la colpa. Nel comunicato c’è scritto che si prende atto del fatto che «effettivamente la composizione della prima squadra non rappresenta le diversità esistenti nella comunità che rappresentiamo». Capito? Adesso sapete come si fa una squadra di calcio. Si chiama un esperto in demografia e gli si chiede di presentare una mappa sulla composizione antropologica della città. Con la sola avvertenza, nel caso si tratti di una squadra femminile, di valutare esclusivamente la popolazione femminile e viceversa se la squadra è maschile.

QUESTIONE DI PERCENTUALI
Quello vi dirà, per esempio: il 60 per cento bianchi, il 30 per cento neri, gli altri asiatici. Il 65 per cento biondi, il 48 per cento bruni, il 2 per cento rossi. Poi ci sono un 30 per cento di giovani sotto i 18 anni, un 60 per cento di persone tra i 18 e i 65 e un 22 per cento di anziani. La squadra è bell’e fatta. Portiere asiatico, due terzini neri dei quali uno biondo ossigenato. In mediana tre bianchi, uno di 17 anni, uno di 30 e uno di 72 (un po’ lento, ma ha tanta classe...). E poi l’attacco con un solo sessantacinquenne all’ala destra (nero) tre punte di cui una asiatica, e infine l’ala sinistra, fortissima, un venticinquenne coi capelli rossi. Nessuno avrebbe niente da dire. Non è sicuro che con questa formazione (maschile o femminile che sia) l’Arsenal riuscirebbe ad entrare in Champions League, però politicamente sarebbe inattaccabile. Specialmente se avesse un allenatore meticcio e possibilmente omosessuale. Che volete che vi dica. Io scherzo, ma prima o poi finirà così. Il politically correct sta diventando una vera e propria ideologia. È l’unico elemento che ancora tiene insieme, un po’ in tutto il mondo, una sinistra che barcolla e sulla scena politica riesce solo a strepitare: «Non si dice negro, non si dice sordo, non si dice disabile, non si dice grasso, non si dice omosessuale, e non si scrivono libri alla Vannacci...».

 

 

E IN ITALIA?
Pensate se nel calcio il politically correct fosse dilagato fino ai livelli attuali qualche anno fa. Cesk Fabregas, che una ventina d’anni fa rese grande l’Arsenal, sarebbe finito riserva per far posto a un ragazzotto un po’ impacciato col pallone, ma nero. E così, prima ancora, Dennis Bergkamp. Oppure, al contrario, sarebbe finito fuori squadra Patrick Vieira, mitica colonna del centrocampo e leader incontrastato. Gli avrebbero detto: scusa, troppi neri in squadra, al posto tuo giocalo zio di Zaniolo. Giorni fa a San Siro si è giocata una partita decisiva per gli esiti del campionato italiano: Milan-Juventus. Il terzino destro del Milan era Davide Calabria. Ed era lui, Calabria, l’unico italiano in campo per il Milan. Non so se la composizione della squadra, piena di francesi e di americani, rispettasse la «complessità esistente nella comunità milanese». Ma va bene così: Francia e Stati Uniti sono la patria del politically correct. 

 

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