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Marco Pantani, a 20 anni dalla morte il "Pirata" è vivissimo

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Tommaso Lorenzini
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Il “paradosso del Pirata” non è un teorema astratto ma tangibile, per quanto metafisico, che si manifesta ogni volta che un Giro d’Italia punta verso il cielo per affrontare salite iconiche, ogni volta che si parla di una ormai «non più possibile» doppietta Giro-Tour (è stato lui l’ultimo a farla, nel 1998), ogni volta che arriviamo al 14 febbraio, San Valentino, il giorno degli innamorati tout-court e il giorno degli innamorati di Marco Pantani.

Cade oggi l’anniversario, venti anni fa che però sembrano ieri: Marco viene trovato morto, a 34 anni, in una stanza dell’Hotel Le Rose a Rimini. È lì che si era rifugiato dopo giorni di tensioni, con i genitori e con la manager Manuela Ronchi, che lo aveva ospitato a Milano pochi giorni prima: vani i tentativi di convincerlo entrare in clinica per disintossicarsi dalla cocaina e combattere i suoi demoni. Marco voleva starsene per i fatti suoi, scappò, mamma Tonina dopo quella discussione svenne, la portarono in ospedale e non lo vide più: era il 31 gennaio, il Pirata aveva fatto perdere le sue tracce probabilmente senza neanche sapere che la madre era stata ricoverata. Tonina l’avrebbe rivisto solo ormai privo di vita, al ritorno da quella vacanza in camper in Grecia dove la sera del 14 febbraio le telefonarono: «Marco è morto».

In quella bara Marco aveva il viso segnato, con molti lividi e un taglio circolare sopra l’occhio sinistro, «colpa dell’overdose di coca e del delirio che l’ha portato a devastare la stanza, prima di morire», recitava la versione ufficiale, troppo frettolosamente. Ma quelle mani intatte, curate, davvero avevano prodotto quello sconquasso? Davvero erano le mani di un ragazzo al quale non importava più di niente ed era pronto a farla finita? O c’è stato dell’altro e qualcun altro, in quei giorni a Rimini e in quella stanza d’albergo, legato magari anche a quel controverso (in molti sospettano taroccato) controllo sull’ematocrito del 5 giugno 1999 che estromise Marco da un Giro ormai vinto e lo indirizzò sulla strada della fine? Sì, c’è stato altro. Tre inchieste che non hanno indicato alcun colpevole per il decesso di Pantani (o potuto indicare, visto che ad esempio la procura di Forlì ha dovuto archiviare l’inchiesta per omicidio per prescrizione dei presunti reati...) hanno tuttavia sollevato decine di interrogativi irrisolti: le ecchimosi da colluttazione, la palla di coca e pane comparsa solo dopo l’arrivo di soccorsi e forze dell’ordine; la carta di un gelato (non mangiato da Marco) lasciata nel cestino da non si sa chi; il bagno distrutto ma non lo specchio (appoggiato sotto al lavandino); il presunto (ma mai provato) isolamento nella camera dal giorno d’arrivo, il 9 febbario; i tre giacconi da sci portati da non si sa chi; le tre sim per il cellulare sparite. Su queste e tante altre domande senza risposta, la giustizia popolare ha superato quella penale e oggi il paradosso del Pirata è sotto gli occhi di tutti. 

Pantani è più vivo che mai, perché a differenza dei miti tragicamente scomparsi (dal Grande Toro a Fausto Coppi, da Gaetano Scirea ad Ayrton Senna fino a Kobe Bryant), una sorta di moto collettivo rifiuta di consegnarlo alla Storia ma presiste nel mantenerlo fenomeno presente: sociale, ciclistico, di costume e (mala) giustizia. Pantani vive nei monumenti a lui dedicati (in piazza Marconi a Cesenatico, sul Colle della Fauniera, nella biglia gigante a Imola); nella Fondazione gestita dalla nipote Serena che aiuta i bisognosi; sulla salita del monte Carpegna, quella che «mi basta», sentenziava, quando andava lì per testare la gamba; sulle montagne del Giro dove scritte, striscioni, murales diventano omaggio laico e religioso assieme. Pantani vive perfino nel luogo della sua sepoltura. Mamma Tonina racconta a Sportweek che «a volte vado al cimitero, vorrei stare da sola con lui, parlargli, ma torno indietro perché intorno c’è un via vai di ciclisti. Con gli anni questo amore è aumentato, una cosa incredibile».

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