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Immigrazione, "diga caduta, ora la linea dura": come l'Italia può salvarsi

Renato Farina
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Record di sbarchi. Rinunciamo qui a fissare una cifra, sarebbe come afferrare l’aria con le dita. È pessima la parola record, non è stato battuto il primato mondiale di salto triplo, ma non se ne trova di migliori davanti al numero quotidiano di migranti che dal Nord Africa e in modo preponderante dalla Tunisia arrivano a flusso ininterrotto a Lampedusa. I modi della traversata sono sempre più arrischiati, con natanti che farebbero acqua anche nel Sahara e gommoni stracciati che persino i bagnini costringerebbero a riportare sulla spiaggia vietando agli scriteriati persino di raggiungere la prima boa. Se accade questo significa che sta venendo giù la diga, siamo al si salvi chi può. Specie la Tunisia è a pochi giorni dalla possibile esplosione sociale e politica. O lo si impedisce, o stiamo freschi tutti quanti: Italia e Francia soprattutto. E allora?

 

 


Ormai non è più possibile trattare la questione delle migrazioni come un fatto soprattutto “umanitario”, cioè con la pretesa di affrontare un fenomeno immane grazie all’applicazione di due principi esclusivi: salvare i naufraghi, accogliere chi sbarca. Se la politica si riducesse a “morale dell’ultimo miglio” sarebbe pura immoralità, disonestà al cubo, mancanza di visione, progetto di dissoluzione. Con un esito criminale a doppio senso di marcia: verso l’esterno e verso l’interno. E qui tolgo dal discorso il condizionale e il congiuntivo, perché se non ci sarà una congrua, determinata e immediata risposta europea in particolare all’incombente tragedia tunisina, la fotografia della realtà sarà da paura. I primi a essere travolti saranno quelli cui si vende a caro prezzo l’illusione di camminare sulle acque fino alla terra dove scorrono latte e miele; subito dopo i Paesi di destinazione (l’Italia, in seconda battuta, la Francia) subiranno un trauma sociale serio. In sé sarebbe dura ma sopportabile. L’ondata migratoria incontrollata andrà però sommata alla crisi finanziaria indotta dai fondi americani in curiosa alleanza strategica con i progetti di caos orditi dalla Russia: questo incrocio di venti dal Sud e dal Nord è bene evitare diventi un tornado come quello di ieri in Mississipi.

 

 


Chiariamo bene il punto politico. Tocca spiegare l’ovvio ai farisei dall’anima sbianchettata, che di sicuro accuseranno di cinismo questa analisi e i doveri conseguenti. La regola evangelica del Samaritano, il quale soccorre il viandante ridotto in fin di vita dai malfattori, non è in discussione. La vittima ha certo il diritto di essere curata, ad essa dobbiamo dedicarci «versando olio e vino sulle ferite» (Luca 10,34). Ma c’è un altro diritto: quello della vittima a non diventarlo. Ed è compito della politica impedire ai briganti di aggredire impunemente gli inermi. Non solo reprimendo la criminalità a danno compiuto, ma sradicandola, togliendo il liquido tossico in cui prospera. Per restare alla parabola del buon Samaritano e traducendola in discorso d’attualità: occorre togliere ai banditi organizzati il controllo di vasti territori dell’Africa, cominciando da quella a noi più vicina, che è oggi la Tunisia.


La politica deve avere questa lungimiranza. Andando al di là di soccorso e accoglienza. Sia chiaro: il governo di centrodestra (con la guardia costiera e le forze dell’ordine impegnate fino all’eroismo) non ha alcun bisogno di lezioni di morale al riguardo. Le statistiche ufficiali dell’Unione Europea, pur sempre molto tristi, documentano come con Meloni-Salvini-Tajani sia diminuito il tasso di letalità delle traversate, rispetto ai governi Draghi e Conte. Nessuna accusa è giustificata all’esecutivo, tantomeno da parte di sinistra italiana e in generale mediterranea. La Spagna del “socialista operaio” (si chiama così il suo partito) Pedro Sanchez adopera i disgraziati che cercano di fuggire dal Marocco come una voltai piccioni per il tirassegno: a fucilate; la Francia di Emmanuel Macron aveva dato finora prova di sovranismo meschino, picchiando il pugno del “tua culpa” sul petto dell’Italia.

Ed è un’ottima notizia la concordia tra Macron e Meloni perla «stabilizzazione della Tunisia». Gli interessi nazionali si sovrappongono spingendo all’unità non solo di intenti ma di pratica politica. In attesa di disegni comuni di lunga marcia – Libia, conflitto covato tra Algeria e Marocco, Stati del Sahel controllati da Wagner-Putin -, la moralità massima è mettere in campo subito una politica che affronti questa “emergenza permanente” - come l’ha definita con intelligente ossimoro – Giorgia Meloni. In poche parole, oggiè necessario soccorrere il fragile governo di Tunisi con azione concorde. Il popolo è attraversato dal malcontento. Si dividono la piazza, contenti l’uno dell’altro, l’islamismo dei Fratelli musulmani e il banditismo dei trafficanti d’uomini e droga, arrivati dalla Libia e dal Sud del Sahara. Un giorno manca l’olio, quello successivo la farina. Il presidente Kais Saied è isolato nella sua villa. È debole. Ma se cade è molto peggio. Va sostenuto. Innanzitutto inviando navi con derrate alimentari. Proponendo conferenze di pacificazione sotto l’egida congiunta di Italia e Francia. Non possiamo permetterci l’esplosione della Tunisia. 

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