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Cpr, la sinistra contesta le "prigioni dell'orrore" che hanno creato loro

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Lorenzo Mottola
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La polemica ha da poco compiuto le nozze d’argento: sono più di 25 anni che una parte della sinistra è in rivolta permanente per l’esistenza dei Cpr, ovvero i Centri di Permanenza per il Rimpatrio. Un’insistenza che si potrebbe scambiare quasi per coerenza, se non fosse che ad aprire (e riaprire in caso di chiusura) questi posti sono stati premier e ministri di sinistra.

Invece in mezzo al fuoco di fila ora ci finisce il ministro degli Interni Matteo Piantedosi, che ieri s’è permesso di segnalare – parlando delle strutture di via Corelli a Milano – che spesso gli spazi non sono nelle migliori condizioni perché vandalizzate dagli ospiti stessi. Ed è partita la classica “chiassata” in stile Soumahoro. Per Nicola Fratoianni siamo di fronte a «posizioni gravi e preoccupanti». Secondo l’eurodeputato Pd Pierfrancesco Majorino è la conferma «del colpevole cinismo del governo».

Per non parlare della perfidia. Il consigliere lombardo del Partito Democratico Paolo Romano sbraca completamente, urlando contro quei «luoghi dell’orrore». Ma chi sarà il “padre” politico di questi «luoghi dell’orrore»? Come dicevamo qualche nome lo conosciamo: Romani Prodi, Giorgio Napolitano, Livia Turco e Massimo D’Alema. Prodi era presidente del Consiglio quando il governo, con legge Turco-Napolitano, progetto l’apertura di queste strutture, che nel tempo sono passate sotto varie denominazioni per cercare di indorare la verità, ovvero che stiamo parlando di prigioni dove i clandestini vengono stipati in attesa di essere messi su un aereo. E non è che le condizioni alla fine degli anni ’90 fossero molto migliori, come documentato da varie inchieste (Marco Gatti) e da una serie sterminata di testimonianze la concentrazione di stranieri disperati perché vicini al rimpatrio. Su via Corelli – aperto con D’Alema premier - s’è letto di tutto, dai pestaggifino ai transessuali che si prostituivano attraverso le grate. Alla fine il centro qualche anno fa è stato anche chiuso. Chi lo ha riaperto? Un altro ministro Dem, ovviamente, Marco Minniti.

 

Quando si parla di immigrazione, tuttavia, il tasso di ipocrisia nel dibattito politico sale a livelli siderali. E così risulta perfino strano spiegare perché quel che dice Piantedosi è semplicemente ovvio. A Roma il centro di Ponte Galeria è stato teatro di un’infinita serie di scontri. Nell’omologo centro di Milano negli ultimi anni è successo semplicemente di tutto. Nel 2020 un incendio partito da una sigaretta spenta su un materasso ha devastato le camerate. Pochi mesi dopo è scoppiato ancora il caos: dopo aver provocato alcune esplosioni come diversivo, tre detenuti si sono arrampicati sui cancelli dei cortili esterni, riuscendo a raggiungere il tetto e a sfondare la barriera anti-scavalcamento in plexiglas. Era tutto un piano: altri ospiti mentre i tre cercavano la fuga, oscuravano le telecamere di videosorveglianza per non essere filmati mentre devastano gli unici due settori rimasti agibili. Il conto? Circa 178mila euro di spesa complessiva, di cui 76mila per riparare i danni provocati dagli ospiti. In sintesi, Piantedosi viene preso per un folle per aver detto una cosa banale, ovvero che se dai fuoco a un palazzo difficilmente migliorerà il suo aspetto. Per i politici Pd invece il copione è sempre lo stesso. Stringono accordi con la Libia per fermare i migranti, poi li contestano. Aprono i centri per i rimpatri, poi li vogliono chiudere. Tutto per andare a caccia di voti. Poi, però, perdono.

 

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