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Partite Iva, sono gli autonomi i veri poveri. Altro che salario minimo...

Nel 2021 il rischio povertà o esclusione sociale delle famiglie con reddito principale da lavoro autonomo è stato superiore a quello dei nuclei che vivono con uno stipendio fisso. Questo risultato, elaborato dall’Ufficio studi della CGIA su dati Istat, testimonia, ancora una volta, come tra gli occupati italiani il cosiddetto popolo delle partite Iva (artigiani, commercianti, lavoratori autonomi e liberi professionisti), abbia meno sicurezze e più difficoltà economiche dei lavoratori dipendenti. Figuriamoci dopo oltre due anni e mezzo di emergenza sanitaria che tra chiusure per decreto e limitazioni alla mobilità hanno messo in ginocchio una gran parte dei titolari di botteghe e di negozi di vicinato. Non è che alle maestranze le cose siano andate meglio. Ma per queste ultime gli ammortizzatori sociali a hanno attutito il colpo; per chi, invece, dopo i vari lockdown è stato costretto a chiudere definitivamente l’attività, non è rimasto che reinventarsi il futuro. L’anno scorso, secondo l’annuale indagine campionaria realizzata dall’Istat, la percentuale di famiglie con reddito principale da lavoro dipendente che si trovava a rischio povertà o esclusione sociale era al 18,4 per cento; per quelle con reddito principale da lavoro autonomo, invece, era al 22,4 per cento. E non è tutto. Tra il febbraio 2020 e lo scorso mese di agosto si sono registrati 56mila occupati in più, ma le due componenti che costituiscono l’intero stock presentano risultati di segno opposto. Il numero dei lavoratori autonomi è sceso di 155 mila unità. Il numero dei dipendenti, invece, è aumentato di 211 mila unità. Insomma, oltre a discutere di salario minimo per chi ha un contratto, bisognerebbe affrontare anche il problema di chi non è a libro paga. Perché i lavoratori poveri non sono solo quelli con lo stipendio troppo basso, ma anche le partite Iva, che vedono costantemente diminuire, se non sparire, il loro fatturato.

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