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Elena Curti, la figlia di Benito Mussolini: "Renzi come mio padre"

Lucia Esposito
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Elena Curti è l'ultima figlia vivente di Benito Mussolini. È nata nel 1923, dalla relazione del Duce con Angela Cucciati, la moglie di Bruno Curti, un capo fascista della prima ora. Seppe di essere sangue del sangue di Mussolini quando aveva diciotto anni, e a lungo lavorò per Alessandro Pavolini. Ogni giovedì, come ha ricostruito Mauro Suttora analizzando i diari di Claretta Petacci, accompagnava il gerarca nello studio del Duce, e Claretta era gelosissima di questa ragazza bellissima e giovane. Ignorava che fosse la figlia di Benito e non un'altra amante. Lo scoprì molto più tardi, dopo il 25 aprile del 1945. Elena infatti faceva parte del convoglio composto dai gerarchi e dallo stesso Duce diretto in Valtellina e, da lì, in Svizzera. Fu tra gli ultimi a vedere Mussolini vivo. Elena è una signora elegante, colta, brillante. Di una lucidità a tratti spietata. Si è fatta accompagnare nella redazione di Libero dalla nipote. «Non ho figli, non ho mai voluto farli perché quando uno li fa poi li deve crescere bene, ci vogliono soldi e prima di tutto due genitori che vanno d'accordo. I miei due padri e soprattutto mia madre mi hanno fatto soffrire molto. Quando ero bambina continuava a dirmi che ha fatto di tutto per perdermi». Non teme di dare giudizi politici, anche ruvidi. Per esempio su Giorgio Almirante... «Non mi è mai piaciuto, fin dal primo momento. Questione di pelle, quando me l'hanno presentato era un rappresentante di saponette mal vestito, poi l'ho rivisto in Parlamento. Ma in tanti anni non ha mai fatto nulla di veramente importante per i fascisti. Era bravo solo a parlare, ed è stato bravo a farsi il suo appartamento, bello e grande nel centro di Roma. Si accontentava di avere il partito al 5% facendosi votare dai nostalgici di cui non si è mai davvero occupato». Intende dire per i reduci di Salò? «Certo, e guai a chiamarli repubblichini, a Salò c'erano solo italiani che amavano l'Italia. I repubblichini sono quelli arrivati dopo, che si sono fatti una carriera sulle spoglie dei ragazzi morti». E del successore di Almirante, Gianfranco Fini, cosa pensa? «Anche Fini non mi è mai piaciuto. Peggio perfino di Almirante. Ma la politica non mi interessa. Non ho mai votato Berlusconi. Ho votato a lungo quello che si beve la sua pipì, come si chiama… Pannella. E poi Verde, perché mi interessa tutto quello che ha a che fare con la natura». Oggi, invece, c'è qualche politico che apprezza? «Credo che al prossimo giro voterò per Renzi, perché mi ricorda Mussolini. È uno che non guarda in faccia a nessuno, va anche contro i suoi pur di fare quello che si è prefissato. All'inizio mi piaceva il presidente Napolitano. Poi però ho capito che faceva solo gli interessi di una parte sola. Mattarella non mi piace, non condivido il suo elogio dei partigiani. Non doveva farlo. Il ricordo che ho io dei partigiani è di gente ignorante, che mi ha rubato tutto. Mi hanno rubato tutti i soldi, mi hanno cacciato di casa, mi hanno preso pefino il mio collo di lince. Quando sono diventata ricca la prima cosa che ho fatto è comprarmi una pelliccia di lince lunga dalla testa ai piedi; quella è stata la mia rivincita». E a destra, chi stima? «Negli anni Cinquanta a Roma organizzavo delle grandi cene a casa mia. Venivano anche i deputati comunisti. Si rideva e si scherzava. Altri uomini... Stimavo molto Mario Tedeschi, il direttore de Il Borghese. Lo chiamavamo Mariolino perché era magro, poi a furia di mangiare è diventato Marione; si è arricchito ma si è meritato tutto, faceva un giornale straordinario, vera destra quella». Ci può raccontare quegli ultimi giorni con Mussolini? «Ero assieme al Duce sull'autoblindo che avrebbe dovuto portarci in Svizzera. Per una serie di circostanze dovute al destino, ci siamo dovuti fermare, perché la strada era interrotta da due alberelli. I tedeschi erano dietro di noi. A un certo punto, quando siamo ripartiti, i tedeschi si sono accorti che il gommone della nostra autoblindo era stato bucato da alcuni chiodi a tre punte. La causa prima e ultima di questa tragedia sono stati proprio questi chiodi. Da lì il titolo del libro del 2003 in cui ricostruisco la vicenda, “I tre chiodi”, appunto». Dove pensava di andare? «Io pensavo di andare al confine svizzero dove doveva esserci la riunione dell'ultimo baluardo di difesa della Repubblica sociale italiana in attesa dell'arrivo degli americani». Che ruolo aveva? «Io lavoravo per il Partito fascista. Per questo motivo - oltre che per la relazione personale con Mussolini - mi sono trovata in quelle circostanze. Sono venuti a prendermi la notte prima, mentre lavoravo al partito. Il Duce all'inizio non era con noi bensì su un'auto. Poi Pavolini lo ha invitato a salire sull'autoblindo. Io ero a fianco di Mussolini ma quando il convoglio si è fermato lui è sceso, perché i tedeschi gli avevano consigliato di vestirsi come uno di loro e salire sul loro camion. La scusa era per proteggerlo, invece era un tranello per consegnarlo ai partigiani in cambio del permesso di proseguire. I tedeschi dicevano di avere il lasciapassare dei partigiani ma quando li hanno incontrati tutti i militari sono scesi dal camion e Mussolini, poveraccio, è rimasto a bordo. Dico poveraccio perché gli avevano detto di far finta di essere ubriaco. E lì lo hanno catturato. È stata tutta una sceneggiata per imprigionare Mussolini. I tedeschi dopo questa bella trovata se ne sono andati». Dunque Mussolini è stato tradito dai tedeschi? «Tradito, tradito… Altroché tradito…». Quando lei si è separata da Mussolini ha capito che c'era qualcosa di strano, che qualcosa non andava? «L'ho capito dopo, quando poco più tardi sono stata catturata anche io. Sentivo tutti che dicevano “Hanno preso Mussolini, hanno preso Mussolini”. Tutti battevano le mani. Io non ci credevo, invece era vero». Qual era lo stato d'animo di Mussolini in quell'ultimo giorno? «Sembrava indifferente. Non sembrava minimamente preoccupato di quello che stava succedendo. Era assolutamente sereno, sicuro di risolvere i suoi problemi». Si ricorda le ultime parole che le ha detto? «Mi disse: gli italiani mi hanno tradito, tanto vale andare con i tedeschi. Poi però anche i tedeschi l'hanno tradito e l'hanno consegnato per salvarsi: a Dongo è stata un'imboscata». Che ricordo ha lei di Mussolini come uomo? «È un uomo che io conoscevo, non per merito o per colpa mia, da quando aveva quarant'anni. Per vent'anni l'ho conosciuto per tramite di mia mamma. Mia mamma ha seguito Mussolini nella sua ascesa, nei momenti più fulgidi della sua conquista, del potere… Andava sempre a Roma a trovarlo, poi è subentrata quella arpia della Petacci…». Sua madre come ha conosciuto Mussolini? «In quegli anni c'era un grande fermento in Italia. Si costituirono come dei plotoni di gente per autodifesa. Il marito di mia madre faceva parte di uno di questi gruppi per la difesa della popolazione. C'era un professore comunista, si chiamava Gadda, e lui andò con il suo gruppo davanti alla scuola del professore per intimidirlo. Ma poi è scappato un colpo di pistola che ha ucciso questo professore, e il mio patrigno è stato incarcerato con i suoi compagni. Disse allora a mia madre di andare da Mussolini che era ancora direttore di giornale. E mia mamma andò, facendosi accompagnare da mio nonno, che conosceva Mussolini poiché era già un fascista - anche se allora non si diceva così - e anticlericale. Si sono conosciuti lì. E poi hanno portato avanti la relazione». Torniamo a quel 26 aprile. Che cosa è accaduto a lei, dopo che Mussolini ha lasciato l'autoblindo? «Io sono rimasta lì, arrivò un gruppo di partigiani e cominciò a sparare. Pavolini e altri saltarono giù dell'autoblindo e si diressero verso il lago. Mi guardai intorno. I partigiani sparavano di sbieco da un pianoro, una pallottola colpì un uomo che era accanto a me, lo chiamavano il Nonnino, un fascista della prima ora. Morì lui e non io. Così saltai dall'autoblindo, non senza una certa paura. Dall'alto ho subito sentito gridare: “Mani in alto, mani in alto”. E mi hanno presa». E l'hanno portata in carcere... «Beh, di sicuro non mi hanno offerto l'aperitivo. Mi hanno perquisito e mi hanno trovato una rivoltella in tasca. Era di mio fratello, che era un militare. Me la lasciò a Como, dicendomi: “Tu ne farai buon uso”. Certo. Infatti quando mi hanno presa i partigiani l'unica a cui hanno trovato addosso un'arma ero io… I partigiani parlavano in dialetto, non sapevano l'italiano. Oltre a farci prigionieri erano anche ignoranti. Mi hanno portato via tutto, anche la borsetta con 75 mila lire di allora. Intanto a Milano mia mamma era dovuta scappare, perché i partigiani erano andati anche lì, per prenderci la casa. Non eravamo ricchi, eravamo in affitto. Certo, mia mamma andava con Mussolini, ma non si è mai arricchita non ha fatto come la Petacci...». E lei come se l'è cavata? «Trovandomi la pistola in tasca, i partigiani volevano affibbiarmi la morte di uno che avevano ucciso loro per sbaglio. Poi intervenne un angelo del cielo. Ho sentito una voce che ha detto: “Fermi, fermi, questa me la lavoro io”. E io pensavo: “Oddio, mi lavori come vuole, ma almeno mi lasci viva”. Invece è stato bravissimo e mi ha salvato. Mi ha domandato come fossi finita sull'autoblindo, e io gli ho raccontato che mi avevano raccolto lungo la strada, mentre andavo in montagna, anche se non era vero. Lui ha finto di crederci. E ha avuto un buon pretesto per salvarmi la vita. Io non so chi sia quest'uomo. Avrei voluto tanto ringraziarlo, ma non ho mai saputo chi fosse». Poi cosa è accaduto? «Mi dicevano: “Mani in alto”, e io ebbi uno scatto di rabbia. Mi girai verso il partigiano che lo gridava e gli dissi: “Ma quali mani in alto, non vedi che non sono armata, non ho nulla e sono stanca”. Pensavo che mi avrebbe sparato alla nuca, invece mi diede un colpo con il fucile, vidi tutto il sangue che mi colava… Ma per un momento mi sono sentita brava, soddisfatta… A quel punto mi hanno portato in caserma. Ho dormito per terra. Ero con altre persone, giovani e non giovani, i fascisti del paese. Ho fatto cinque mesi di carcere. Era pieno di cimici, spaventoso. Vivevamo in condizioni terribili. C'era un cono stretto, con sotto un coperchio, dove le prigioniere andavano a fare i loro bisogni. E a turno la mattina lo svuotavamo. Era la cosa più carina che c'era. In carcere ho imparato come cacciare le cimici dalle brandine, dando fuoco agli ingranaggi del lettino. Mi accusavano di collaborazione con il fascismo, volevano darmi venticinque anni. È dovuta intervenire mia madre a svelare che c'era sotto…». Che cosa ha pensato quando ha viste le immagini di piazzale Loreto? «Le ho viste molto dopo. Non volevo vederle. Poi un mio amico me le ha messe sul computer. È quanto di più vergognoso sia mai successo in Italia, la cosa più orrenda… Non so trovare le parole per descrivere questo sconcio di appendere per i piedi un morto, andarlo a pestare, tutti felici… Noi italiani siamo così cattivi, così villani? Trucidare un morto e poi vantarsi di averlo fatto? Ma come è possibile? Voi non avete idea di questo, perché non lo avete vissuto. Un uomo come Mussolini, che è stato idolatrato, perché lui amava circondarsi di persone che lo adoravano, un po' come oggi Berlusconi, che è stato un grande come imprenditore e ha risollevato l'Italia ma come politico... niente, non vuole lasciare lo scettro. Un uomo come Mussolini, così osannato da vivo, è stato poi così abbrutito; ma da morto, perché da vivo nessuno aveva il coraggio... Ma se avesse lasciato cinque anni prima tutto questo non sarebbe successo ma non andiamo più avanti a parlarne per favore, che mi sento male…». intervista di Francesco Borgonovo e Pietro Senaldi Guarda il video dell'intervista a Elena Curti  su LiberoTV

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