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L'editoriale

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di Maurizio Belpietro

Giulio Bucchi
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In Israele sono stato una sola volta nel 1991, mentre era in corso la prima guerra del Golfo. Su Tel Aviv cadevano i missili di Saddam Hussein e nelle strade c'erano crateri enormi. Gerusalemme, dove dormivo, essendo una città santa non era nel mirino dei cannoni  iracheni, ma aveva  un altro tipo di problema: l'Intifada. In palestinese vuol dire rivolta e nei vicoli di Gerusalemme la ribellione la si misurava guardando le imponenti misure di sicurezza. La guerra finì una settimana dopo il mio arrivo e dunque non feci in tempo a vedere e capire tutto quello che avrei voluto. Una cosa però mi risultò evidente, ovvero che il conflitto tra palestinesi e israeliani fosse più complesso di come ero abituato a leggerlo sulle pagine dei giornali italiani. Per la stampa nazionale tutto era estremamente chiaro: in quella guerra - di questo infatti si tratta - da una parte c'erano i buoni, cioè i palestinesi, dall'altra i cattivi, vale a dire gli israeliani. Una distinzione netta, senza sfumature o esitazioni. In realtà le cose stavano in maniera molto diversa e non solo perché la disinformazione era un'arte praticata da entrambe le parti in lotta, ma pure a causa dell'incapacità di molti cronisti di superare i pregiudizi e di andare oltre i luoghi comuni. Le vittime non erano tutte addossabili all'esercito israeliano, come comunemente si leggeva. Ma c'erano anche palestinesi uccisi da altri palestinesi. Donne assassinate perché non avendo di che sfamare i propri figli si prostituivano, uomini uccisi perché semplicemente non volevano aderire alla rivolta. Ricordo un tipo che avvicinò me e  un altro collega cercando di venderci della mercanzia. Era un padre di famiglia costretto a non lavorare e a protestare contro Tel Aviv. Fosse stato per lui la serranda del suo negozio l'avrebbe alzata subito. Ma gli integralisti lo costringevano a tenerla chiusa, pena la vita. Se ricordo tutto ciò è perché penso che Vittorio Arrigoni sia stato vittima di quei pregiudizi che portavano a identificare la buona causa tutta da una parte e quella cattiva dall'altra. Ovviamente entro in punta di piedi in una vicenda dove qualcuno ci ha rimesso la pelle inseguendo i propri ideali di pace e di fratellanza. Non voglio dire che si sia sbagliato e che abbia buttato la propria vita al vento. Ma ho la sensazione che per un eccesso di idealismo, per una encomiabile voglia di battersi in nome dei più deboli, egli non si sia reso conto di quale groviglio di odio, vendette e integralismo religioso sia oggi Gaza. Quella che vi si combatte non è una bella guerra, ammesso che una guerra possa mai essere bella, ma un conflitto sporchissimo, dove chi vuole apparire vittima non esita a mettere il proprio figlio davanti alle bocche di fuoco israeliane per poter poi accusare le truppe di David  di essere assassine. Madri che mandano i propri figli carichi di tritolo a farsi esplodere. Comandanti che nascondono le armi in condomini pieni di gente mettendo in conto che i missili di Tel Aviv sparati contro il deposito facciano una strage. Gruppi armati che combattono gli israeliani ma non esitano a scannarsi fra di loro per questioni di soldi o di potere. Infilarsi in mezzo a una guerra di questo tipo può sembrare un gesto coraggioso, in realtà è solo un'imprudenza con cui ci si gioca la vita. Proprio quello che capitò a Enzo Baldoni, un giornalista per passione e pacifista per convinzione, che sette anni fa si avventurò in Iraq volendo raccontare il conflitto: finì sgozzato e i suoi resti furono trovati a distanza di anni. Alle due Simone e alla collega del Manifesto Giuliana Sgrena andò meglio, ma anch'esse rischiarono di lasciarci la ghirba. Purtroppo, molti militanti pacifisti, imbottiti di buonismo e di inesperienza, pensano che basti dichiararsi di sinistra e schierarsi a favore della causa di quelli che ritengono gli oppressi per essere al sicuro. Le buone intenzioni in nessuna guerra sono un salvacondotto capace di mettere al riparo chi le sostiene. E nemmeno garantiscono una buona morte.

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