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L'editoriale

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di Maurizio Belpietro

Lucia Esposito
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Ci sono molti motivi per ridere di Nicolas Sarkozy e nelle pagine interne Libero si occupa di segnalarli tutti, a cominciare da quando il presidente francese partecipò a una conferenza stampa talmente sbronzo da non reggersi in piedi. Ma rimesso al suo posto il nano dell'Eliseo (il quale ha poco da scherzare, visto come sono messe le banche del suo Paese), bisogna riconoscere che quanto ci chiede l'Europa, cioè pensioni e flessibilità nel mondo del lavoro, è ciò che noi predichiamo da anni. La nostra economia non può reggere il confronto con quella degli altri se non uniformiamo le regole del gioco. E se queste all'estero prevedono un'età in cui ci si ritira diversa dalla nostra e la possibilità di licenziare i fannulloni, l'Italia non può fare di testa sua. A differenza di quanto si pensava dieci anni fa, la globalizzazione non ha impoverito i Paesi poveri, ma ha costretto quelli ricchi a confrontarsi con loro. Ciò che si produceva da noi a 10 euro oggi si fabbrica in Oriente a 50 centesimi e noi dobbiamo abituarci a concorrere con simili prezzi, abbassando i nostri. Dunque dobbiamo rinunciare a una parte del sistema di welfare, ossia le pensioni anticipate e le tutele estreme sul posto di lavoro.  Non si tratta di abbassare la soglia della sicurezza,   mettendo a rischio la vita dei dipendenti: quella è intoccabile e infatti gli incidenti sul lavoro sono in diminuzione. Ciò che però va abolito è il salvacondotto offerto dallo statuto dei lavoratori a chi non ha più voglia di lavorare. Gli scansafatiche, cioè coloro che studiano ogni espediente per non sudare, devono andare a casa. Ma se da un lato è indispensabile porre mano alla legge che difende anche chi è indifendibile, bisogna però affrontare il tema dei costi della politica. Si possono infatti  chiedere sacrifici a chi lavora, invitandolo a rinunciare all'inamovibilità e alla pensione a 55 anni, ma chi sollecita la misura deve essere a prova di contestazione. Intendiamo cioè dire che non può essere un Parlamento in cui si sciala a ordinare agli italiani di stringere la cinghia. Non sarebbe credibile e la gente avrebbe ragione a girare al mittente la domanda, osservando che tocca agli onorevoli fare il primo passo. Senza l'esempio dei parlamentari sarà difficile per chiunque digerire il rospo. «Ma come», si domanderanno indignati migliaia di aspiranti pensionati, «la Casta chiede a noi di mollare il posto di lavoro più tardi e a se stessa neppure una limatina di unghie?». Obiezione legittima e alla quale il Parlamento, secondo noi, non può sottrarsi. Fossimo uno dei mille deputati e senatori che affollano le Camere, prenderemmo in considerazione l'idea di ridurci subito le spese. Non si tratta di fare cose demagogiche o dilazionate nel tempo. Dunque, niente abolizione delle Province con disegno di legge costituzionale né riduzione del numero di parlamentari: gli itinera sono troppo lunghi e alla fine il taglio è rinviato a data da destinarsi. C'è un metodo più diretto e semplice per mettere a dieta gli emicicli di Montecitorio e Palazzo Madama: basta semplicemente stabilire che le pensioni dei parlamentari non ci sono più. Oggi il vitalizio degli onorevoli costa circa 220 milioni l'anno e a beneficiarne sono oltre 2.200 ex parlamentari, i quali, in aggiunta, hanno la sanità gratuita e una serie di altre agevolazioni gentilmente concesse da Camera e Senato. È proprio indispensabile un simile trattamento? Non crediamo. La pensione per deputati e senatori non è dovuta, in quanto chi fa un servizio per lo Stato non lo fa per guadagnarci ma, teoricamente, per il bene comune. E allora come mai molti onorevoli in servizio permanente in Parlamento si ritrovano due assegni di quiescenza, l'uno per il servizio svolto in precedenza e l'altro per il periodo da deputato? Si potrebbe cominciare con lo stabilire che le Camere al massimo paghino i contributi per la pensione precedente, cosicché il parlamentare non abbia a rimetterci, ma nulla di più. L'onorevole avrebbe la sua pensione normale, da impiegato se ha svolto una carriera da impiegato oppure da avvocato se tale era la sua professione precedente. Tuttavia non avrebbe due vitalizi, cioè in pratica dal suo ruolo pubblico non trarrebbe un euro in più. In tal modo lo Stato risparmierebbe perché non dovrebbe versare una pensione elevata per pochi anni di servizio in politica. E sulle casse pubbliche non graverebbero neppure le spese sanitarie, in quanto il rappresentante del popolo continuerebbe a curarsi con il sistema che aveva in precedenza.Si tratta insomma di dare l'esempio. Se ai cittadini si chiedono sacrifici, ossia di andare in pensione più tardi e di pagare il ticket, la Casta non può sottrarsi alle stesse misure, conservando intatti   i privilegi di ritirarsi prima dei sessant'anni e di godere di servizi privati. Si taglino i loro vitalizi, quelli dei consiglieri regionali e i costi della politica. Allora sì, la gente capirà che l'ora del bengodi è finita. Ma per tutti, non solo per chi non ha la fortuna di stare nel Palazzo. di Maurizio Belpietro

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