Sport sotto l'assedio, la carovana del 2009 e il no di Israele: "A Gaza non c'è niente da vedere"
martedì 2 settembre 2025

Sport sotto l'assedio, la carovana del 2009 e il no di Israele: "A Gaza non c'è niente da vedere"

Sport sotto l'assedio, la carovana del 2009 e il no di Israele: "A Gaza non c'è niente da vedere"
Nicoletta Orlandi PostiNicoletta Orlandi Posti è nata e cresciuta alla Garbatella, popolare quartiere di Roma, ma vive a Milano. Giornalista professionista e storica dell'arte, cura su LiberoTv la rubrica "ART'è". Nel 2011 ha scritto "Il sacco di Roma. Tutta la verità sulla giunta Alemanno" (editori Riuniti); nel 2013 con i tipi dello stesso editore è uscito "Il sangue politico": la prefazione è di Erri De Luca. Il suo romanzo "A come amore", pubblicato a puntate su Facebook, ha dato il via nel 2008 all'era dell'e-feuilleton. A febbraio del 2015 è uscito il suo primo ebook "Expo2051". Nel 2016 Castelvecchi ha pubblicato il suo libro "Le bombe di Roma"; nel 2019 è uscita la seconda edizione. Sta lavorando a una trilogia dedicata ai misandricidi dal titolo "Ragazze di Buttiga". Il titolo del blog è un omaggio al saggio del prof Vincenzo Trione.
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Nell'aprile del 2009, la strada che dall’aeroporto Ben Gurion porta a Betlemme ci si è aperta davanti come una ferita di cemento e filo spinato. Eravamo la carovana di Sport sotto l’assedio, decisi a rompere, con un pallone fra i piedi, quel muro di silenzio che già allora soffocava Gaza e la Cisgiordania. Oggi, a distanza di sedici anni, mentre la Global Sumud Flotilla salpa da Barcellona, da Genova, dalla Grecia, dalla Tunisia, dal Brasile – la più grande missione umanitaria della storia – quelle immagini ritornano con una forza che non lascia scampo.
Anche allora ci dissero che “a Gaza non c’è niente da vedere e nessuno da incontrare”. Oggi sappiamo che in quella “terra senza niente” Israele sta compiendo un genocidio cercando di spegnere i riflettori del mondo che non ci sta: oltre 300 giornalisti uccisi mentre documentavano la devastazione, la fame, la deportazione forzata, le umiliazioni quotidiane inflitte a uomini, donne, bambini, medici, insegnanti. Ecco perché è necessario continuare a parlare e raccontare cosa sta succedendo lì: l’onda solidale, umana, legittima che spinge le imbarcazioni della Sumud Flotilla deve diventare sempre più potente, forte per rompere definitivamente l’assedio a Gaza.

Il nostro viaggio allora cominciò a Dheisheh, campo profughi di dodicimila anime stipate in mezzo chilometro quadrato. All’Ibdaa Cultural Center, dove ibdaa significa "creare dal nulla”, abbiamo scoperto che la resistenza palestinese aveva il volto delle donne in un laboratorio di sartoria o in un asilo per bambini. Il centro organizzava infatti nel campo l’ostello, il ristorante, la biblioteca, la scuola dei bimbi, l’ospedale, e attività come danza, musica, teatro, e il fondamentale "comitato delle donne". Con grande fatica, l’Ibdaa finanziava pure l’università, ogni anno, a cinquanta ragazzi di Dheisheh. Nel campo si procedeva in fila indiana, le case sono molto vicine l’una all’altra, non c'è spazio. Sui muri, i graffiti lasciati dai compagni di altre carovane si alternavano ai volti dei ragazzi uccisi dall’esercito israeliano: uno di loro era stato colpito da cinquecento proiettili.

Il report della carovana ricorda la partita della nazionale under 21 palestinese contro l’improvvisata nazionale italiana di "Sport sotto l’assedio", a seguire l’incontro tra le squadre femminili. Lo stadio di Al Ram, a Ramallah, era stato costruito dalla Fifa, la federazione calcistica mondiale, solo due anni prima. Qui si allenava la nazionale palestinese, che durante l’operazione Piombo fuso aveva già perso due dei suoi giocatori migliori, uccisi a Gaza dalle bombe israeliane. 
Per arrivare allo stadio non abbiamo potuto percorrere l’autostrada che collegava in venti minuti l’insediamento di coloni Maali Adumin con Gerusalemme: era riservata ai cittadini israeliani. Noi, per raggiungere Ramallah a bordo di un autobus con la targa verde palestinese, abbiamo impiegato circa un’ora e mezza, lungo la strada tutta curve che passava dal check point di Abu Dis. Allo stadio però abbiamo ricevuto un’accoglienza degna dei campioni del mondo, bandiere italiane e palestinesi sventolano ovunque. Sotto una gigantografia di Arafat c’è uno striscione di “Sport sotto l’assedio”: «Senza la vostra libertà non saremo mai liberi». Un momento di imbarazzo, prima del fischio di inizio, quando i ragazzi palestinesi con noi sugli spalti hanno provato a metterci in mano il tricolore per ascoltare gli inni nazionali. Finito quello palestinese (la squadra di casa con la mano sul cuore) è toccato a noi: sulle note dell’inno di Mameli nessuno sapeva cosa fare, all’improvviso si è alzato un pugno e da lì sulla curva italiana è partita una «ola» di pugni chiusi, ci è parso un compromesso accettabile. Il risultato sportivo invece è deludente: abbiamo perso le due partite 10 a 0 e 9 a 0, e in mondovisione.

Un pezzo di cuore è rimasto a Jayyous, dove la disoccupazione aveva raggiunto il 75% dopo la costruzione del muro, abbiamo visto cosa significava vivere con un pass che decide se puoi o meno coltivare la tua terra. Vedevamo il verde degli uliveti al di là della rete, mentre dal lato palestinese la terra restava arida. Lì abbiamo conosciuto Husam, ventun anni, tre passati in carcere, tre fori di proiettile sul corpo. Ci indicava Tel Aviv e il mare, a nove anni di distanza dall’ultima volta che vi aveva potuto mettere piede.

Ritornano oggi quelle voci, “Bella ciao” cantata con i bambini dei campi. Le donne che parlavano con le figlie e i figli in inglese perché dovevano essere capaci di raccontare al mondo quello che stava subendo il popolo palestinese. Le studentesse all’università che non si rassegnavano a un destino già scritto da altri. Tante immagini ritornano in mente mentre da Genova, città che ha saputo donare 260 tonnellate di aiuti e illuminare la notte con 50mila candele, finestre accese e bandiere palestinesi sui tetti, partivano le prime imbarcazioni della Global Sumud Flotilla. Una moltitudine di navi e di persone che cercano, ancora una volta, di bucare l’isolamento della Striscia con la promessa dei camalli del Calp: "Bloccheremo tutto appena si perderà il segnale con la flottiglia". 

Se nel 2009 ci dissero che a Gaza non c’era nulla, oggi sappiamo che lì c’è tutto ciò che ci riguarda: la misura della nostra umanità, la resistenza di chi continua a vivere e a lottare. La Flotilla porta con sé questo: la memoria di chi è stato assassinato, la voce dei bambini che non devono smettere di giocare, la forza di chi crede che la libertà di un popolo sia intrecciata indissolubilmente a quella di tutti noi.