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Paolo Becchi, i Gilet arancioni e la strategia della tensione sanitaria: "Divieto di assembramento? Viola la Costituzione"

Paolo Becchi
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L'espressione che sinora è stata più usata in relazione al pericolo del contagio è «distanziamento sociale». Tutti noi abbiamo sperimentato e sperimentiamo ancora cosa questo significhi. Per non contagiare c'è bisogno di un preservativo specifico, la «mascherina», ma neppure questa per il nuovo virus - a differenza di quanto il preservativo vero faceva per l'Hiv - basta. Ci vuole almeno un metro di distanza tra i corpi. Anche un bacio con la mascherina tra fidanzati o un abbraccio sono vietati perché non è stato rispettato il metro di distanza. Lavorare in fabbrica con la mascherina alla lunga creerà problemi di salute agli operai, ma pazienza questa è la vita. E non basta ancora: i corpi non sono liberi di spostarsi neppure mantenendo la distanza.

 

 

Non posso andare da Genova a Milano da solo in macchina se non con permessi speciali. Le assurdità di queste disposizioni, tanto più quando l'emergenza è inesistente, sono evidenti. E non è il caso di insistervi ulteriormente. È passato invece in secondo piano un aspetto più specifico del distanziamento: l'assembramento. Vietato ovviamente allo stesso modo del distanziamento. E se il distanziamento sociale limita, certamente, la libertà personale, la libertà di movimento e di circolazione, l'assembramento viola in modo diretto l'art. 17 della Costituzione, che stabilisce che «i cittadini hanno diritto di riunirsi pacificamente e senz'armi. Per le riunioni, anche in luogo aperto al pubblico, non è richiesto preavviso».

Questo diritto fondamentale violato lo hanno chiamato «assembramento», così l'art. 1 del Dpcm del 9 Marzo scorso, che dispone: «sull'intero territorio nazionale è vietata ogni forma di assembramento di persone in luoghi pubblici o aperti al pubblico». Non hanno detto "riunione", per due ragioni: da una parte, per rendere meno immediato, agli occhi delle persone, il fatto che, con tale disposizione, ad essere limitato è un diritto fondamentale previsto dalla Costituzione; dall'altra, perché, rispetto a «riunione», «assembramento» veicola il significato - negativo - di «affollamento», di qualcosa di disordinato e di pericoloso. Ma, giuridicamente, vietare «ogni forma di assembramento» significa vietare ogni forma di riunione. Se ci si pensa, è un divieto ancora più lesivo di quello del distanziamento.

Potremmo definirla la «strategia della tensione sanitaria». E con 33mila morti circa sta avendo successo. Nel distanziamento io sono obbligato a tenere le distanze da altri individui; nel divieto di assembramento non bastano neppure le distanze e neppure l'uso della mascherina. Il soffocamento della libertà di riunirmi con più cittadini per manifestare il dissenso non riesce neppure a nascondersi dietro il pericolo del contagio. È un controllo totale sulla vita pubblica dei cittadini. Dalla sua il governo può sempre dire che questo viene paternalisticamente fatto «per il bene dei cittadini», meno comprensibile è che le opposizioni abbiano accettato senza grandi proteste le violazioni delle libertà individuali che ci sono state e continuano in parte ad esserci, compresa questa ultima.

Fino a quando potrà continuare questa situazione? Anche la campagna elettorale in vista delle elezioni regionali di settembre sarà subordinata al divieto di assembramento in tutti i luoghi pubblici? Saranno ammesse manifestazioni a condizioni che si evitino contatti e solo se in «forma statica» e dunque senza cortei, come previsto dalle leggi fasciste di pubblica sicurezza del 1931? A questo siamo letteralmente tornati. Che dire? Possiamo solo sperare che alla soglia dell'invivibilità irrompa spontaneamente la necessità di vivere e non solo di sopravvivere. Possiamo solo sperare in atto collettivo liberatorio da regole fasciste che sono una offesa alla democrazia.

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