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Referendum, le elezioni sono un obbligo: il "cavillo" in Costituzione che lo conferma

Francesco Carella
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Con la conferma referendaria della riduzione dei parlamentari e dopo un mediocre risultato elettorale ottenuto dai partiti di governo (i pentastellati oscillano intorno a percentuali a una cifra) le domande da porsi in un Paese di democrazia liberale non possono che essere due. L'attuale Parlamento può ancora continuare ad esercitare, in punta di fatto e di diritto, i suoi pieni poteri fino al punto da eleggere nel 2022 il nuovo capo dello Stato? Secondo interrogativo. Un esecutivo a malapena legittimato da scarni numeri parlamentari, ma che riceve segnali negativi dagli elettori ogniqualvolta vengono chiamati ad esprimere il loro voto, per quanto tempo può continuare ad ignorare di non essere più in sintonia con il Paese reale? 

 

Chi si occupa di storia politica sa che nei casi in cui si configuri una disomogeneità significativa fra eletti ed elettori nelle democrazie rappresentative si pongono problemi inerenti sia la stabilità politica che questioni di estrema delicatezza istituzionale.

«EFFETTIVO DISALLINEAMENTO»
In tal senso, il costituzionalista Costantino Mortati indicava già nei primi anni '50 come principio cardine di un sistema democratico il fatto che fosse tenuto sempre in debito conto, sia dalle maggioranze che dalle opposizioni, l'esistenza di una stretta «concordanza fra corpo elettorale e corpo parlamentare». A tal proposito, egli scrive che «l'accertamento di tali disarmonie, nonché la fondatezdisallinza dell'effettivo disallineamento fra governanti e governati non può che rientrare nei compiti del presidente della Repubblica che ha la facoltà di agire attraverso l'impiego dell'istituto dello scioglimento anticipato delle Camere, quando vi siano elementi tali da renderlo necessario o anche solo opportuno». 

Intanto, dalla maggioranza giallorossa arrivano in queste ore indicazioni di segno contrario. Per il Pd e il M5S la vittoria dei Sì al referendum non delegittima l'attuale Parlamento, semmai ne incoraggia l'azione riformatrice, mentre il voto regionale è considerato ininfluente sul piano nazionale.

CECITA' PAGATA CARA
Eppure, negli anni della prima Repubblica a fronte di nuovi orientamenti da parte del cittadino elettore, la classe politica rispondeva solitamente attivando due passaggi: o si costituiva un nuovo governo oppure si ritornava alle urne. Tutto ciò avveniva in ragione della formazione politico-culturale di quel ceto dirigente i cui leader, in buona parte, avevano alle spalle l'esperienza dell'Assemblea Costituente e, pertanto, erano consapevoli del fatto che un disallineamento fra eletti ed elettori alla lunga avrebbe rappresentato un vulnus che si sarebbe rivelato esiziale per l'incompiuta democrazia italiana. La rotta s' inverte fra la fine degli anni '80 e l'inizio dei '90, quando venuto meno il pericolo comunista, dopo la caduta del Muro, e affermatosi nei partiti una leadership meno legata - se non addirittura estranea - allo spirito della Costituente, ci si convince di potere governare anche a dispetto dei segnali inviati dai «sensori del corpo sociale». 

 

Si è trattato di una cecità che quel ceto politico pagò pesantemente. Come finì è cosa nota. Una crisi debitoria esplosiva e l'azione della magistratura requirente portarono in pochi mesi ad una riscrittura del panorama politico italiano. Sappiamo che i parallelismi storici sono sempre operazioni gratuite, ma è più che giustificata la tentazione di assimilare la cecità dell'attuale maggioranza - nel credere che nulla stia accadendo nella società italiana - a quella che trent' anni fa provocò la disfatta dell'allora élite di governo. 

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