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Enrico Letta, la scelta suicida del Pd: scommettono su un premier che ha fallito

Giovanni Sallusti
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Il Pd per uscire dalla crisi vuole affidarsi a Enrico Letta. News secca, che racconta più di mille analisi politologiche l'irrefrenabile istinto suicida del principale partito della sinistra italiana. Il quale, per risolvere un'impasse identitaria, valoriale, comunicativa ultradecennale, va a riesumare uno dei protagonisti principali di quest' impasse. Sembra una commedia minore di Beckett, siamo nel teatro dell'assurdo, molto più che nel campo (in teoria) razionale della politica. Focalizziamo la biografia del Letta nipote, consustanziale al potere quasi quanto lo zio Gianni, seppur con minor aderenza machiavellica. Enrico sembra la sintesi vivente di quella cultura "ulivista" che non è mai sbocciata, di quel matrimonio tra eredità politiche mai consumato che è stato, è e con lui molto probabilmente sarà il Pd. Giovane ministro nei governi D'Alema e Amato, responsabile Lavoro nella segreteria Veltroni, sottosegretario alla presidenza del Consiglio nel secondo governo Prodi, ha lavorato fianco a fianco con tutti i gerarchi della sinistra post-Pci e post-Dc, sempre intenti ad accoltellarsi tra loro, e ha sempre trovato un modus vivendi con l'accoltellatore di turno (non lo trovò poi con Renzi, che infatti era il "rottamatore" di quella nomenklatura). È stato poi vicesegretario di Pierluigi Bersani, una delle stagioni più malinconiche del Pd. Fu proprio quella segreteria ad inaugurare il corteggiamento esplicito, ben presto divenuto sudditanza (in)culturale, nei confronti del Movimento Cinque Stelle.

 

 

 

Troppa "stabilità" 

Non solo, sono loro a (non) gestire lo psicodramma dell'elezione del presidente della Repubblica nel 2013, quando vengono trombati in serie due padri fondatori come Franco Marini e Romano Prodi. Subito dopo il nostro diventa addirittura presidente del Consiglio, e qui può vantare un record invidiabile: essere ricordato come il premier più immobilista degli ultimi lustri, già di loro trascorsi all'insegna dell'immobilismo come regola del (soprav)vivere nazionale. La sua esperienza a Palazzo Chigi sta tutta nel titolo di un editoriale del Wall Street Journal, che di fronte alla perenne e pappagallesca rivendicazione lettiana della "stabilità" sbottò: «Il governo dell'Italia ha di fronte la stabilità del cimitero?».

 

 

 

Fuga a Parigi

Arriva quindi l'affondo di Renzi, ed Enrico si trasferisce a stare sereno a Parigi, a dirigere la Scuola di affari internazionali dell'Istituto di studi politici. Dall'esilio francese accentua ulteriormente i toni "europeisti", che nel suo linguaggio significa di adesione integrale ed entusiasta ai dogmi dell'Eurocrazia. Rimane scolpita una sua sentenza dell'aprile scorso: «L'Europa è interconnessa. O ci salviamo tutti o è la fine». Riletta un anno dopo, con Boris Johnson che si è incaricato di dimostrare fattualmente il contrario, e con il fallimento spettacolare dell'Unione sul fronte della campagna vaccinale (ovvero l'unico che conti oggi), diciamo che non contribuisce a migliorare l'impressione di un fiuto politico e leaderistico non particolarmente sviluppato. Sintesi impietosa: il Pd è sull'orlo del baratro, dilaniato da lotte correntizie, tenuto (per ora) insieme dalla pura gestione del potere, a distanza ormai siderale dalle urgenze della storia e della cronaca. E invoca come Messia lui, Enrico, il notabile, il figlio di quell'apparato che dovrebbe scuotere, il galleggiatore, l'eurofondamentalista, l'ex giovane da sempre vecchio. La casa va a fuoco, e chiamano uno dei piromani. Che si concede pure il lusso di irriderli, e di «prendersi 48 ore per decidere». Non è la bella morte, è una lunghissima agonia.

 

 

 

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