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Il caso Renato Farina, dito puntato contro gli indignati speciali: se il giornalista fa la morale

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Iuri Maria Prado
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Non conosco il caso giudiziario di Renato Farina, ma ho letto quel che se ne è scritto in questi giorni, sulla notizia dell'incarico di consulenza da cui ora si è dimesso. Apprendo, dunque, che Farina avrebbe scritto cose false o compiacenti, e per questo motivo sarebbe stato destinatario delle attenzioni di giustizia e della riprovazione dell'Ordine dei giornalisti. Beh, tutto oltremodo dovuto, mi pare. Scrivere cose non rispondenti al vero, infatti, oppure per compiacere qualcuno, è iniziativa notoriamente estranea al costume giornalistico: non si è mai dato - perché ne verrebbe una lesione irrimediabile del decoro professionale - che il giornalista riporti notizie inveritiere; non si è mai dato perché è il puro disinteresse a ispirare la missione informativa - che il giornalista scriva per dare soddisfazione all'interesse di qualcun altro.

 

L'intervento del giornalista nelle cose di cronaca, di politica, di economia, di giustizia, è inflessibilmente rivolto al vero, alla ricerca del riscontro oggettivo, alla documentazione dei fatti inoppugnabili. E mai, in questo suo cimento, il giornalista si preoccupa di recare disturbo a qualcuno né mai - e anzi men che meno vi si dedica con l'obiettivo favorire questo o quello. Occorre dunque essere solidali coi giornalisti che denunciano la loro indignazione perché un collega, a stupro di una specchiatezza della categoria sinora incorrotta, si è lasciato andare a scrivere cose non vere o - vergogna! - alla ricerca di qualche interessato consenso. Moralità, signori: moralità!

 

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