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Mario Draghi e l'errore dei partiti: perché delegittimare il premier non è la soluzione

Francesco Carella
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Ciò che è accaduto in Senato nei giorni scorsi con la frattura consumata all'interno della maggioranza che sostiene l'esecutivo è sì la spia che sono iniziate le prove generali per l'elezione del prossimo capo dello Stato, ma è soprattutto la dimostrazione che i sistemi di democrazia rappresentativa non sono in grado di reggere a lungo uno scollamento fra una maggioranza formale e un mutamento sostanziale degli orientamenti elettorali. È precisamente quello che sta accadendo in Italia - nonostante la presenza di un premier quale Mario Draghi investito del compito di guidare il Paese in un momento di delicati passaggi economici - laddove la geografia parlamentare prodotta dalle elezioni del marzo 2018 è in larga parte superata. Una tale disomogeneità, in una democrazia liberale, non può non sollevare rilevanti interrogativi. Si tratta di un antico problema al centro delle riflessioni dei più eminenti costituzionalisti fin dai primi anni cinquanta. Risalgono a quel periodo gli scritti sull'argomento di uno dei protagonisti della Costituente, Costantino Mortati.

 

 

Egli pone con forza l'accento sulla necessità che venga sempre garantita, al fine di ottenere governi stabili, una certa «concordanza fra corpo elettorale e corpo parlamentare». Allorquando tutto questo non sia possibile non rimane altro da fare, secondo Mortati, che ricorrere a «un accertamento della sua reale fondatezza attraverso la consultazione del corpo elettorale da effettuare con lo scioglimento anticipato delle Camere per mano del presidente della Repubblica». Alla questione dedicò molta attenzione anche Giovanni Sartori, il quale in Democrazia: cosa è ricorda che i sistemi democratici, fragili per definizione, rischiano di uscirne seriamente compromessi «in assenza di un costante equilibrio fra i risultati raggiunti nelle urne e la silenziosa fiducia espressa a governo e opposizione da parte dell'intero corpo elettorale».

 

 

Un'osservazione che riporta in primo piano un elemento fondamentale della democrazia liberale ampiamente trascurato in Italia, ossia che per raggiungere quella «silenziosa fiducia» fra élite e popolo è sempre stata decisiva l'azione pedagogica esercitata dai partiti. In tal senso, rendono un cattivo servizio alla storia della Repubblica coloro che continuano a vedere nell'attuale governo un'occasione per ridimensionare le formazioni partitiche e il loro ruolo come anello di congiunzione fra istituzioni e cittadini. Lo "stato d'eccezione" - fonte primaria della legittimazione dell'esecutivo in carica- non è una condizione a tempo indeterminato. Frattanto una classe politica lungimirante potrebbe utilizzare la parentesi Draghi per ricollocarsi al centro della decisione pubblica come espressione diretta dell'elettore sovrano, dimostrando che la democrazia per continuare ad essere tale non può non riconoscere la funzione dei partiti.

 

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