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Enrico Letta? Tra un po' dirà che Zelensky non vuole la pace: se questo è un "atlantista"

Iuri Maria Prado
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Solo chi prendeva fischi per fiaschi poteva credere alle genuinità di Enrico Letta in versione di intransigenza atlantista. I suoi biascicamenti di questi giorni sulla pace mica tanto buona, che tuttavia è meglio di una guerra in ogni caso cattiva, la dicono assai lunga non solo circa la piega odierna del suo eloquio, ben misurata sull'esigenza di una coltivazione elettorale pericolosamente esposta alle intemperie del consenso fuggevole: la dicono lunga, appunto, già a proposito di quel suo originario portamento inflessibile.

 

 

 

Non era convinzione: era convenienza. Non era il cuore oltre l'ostacolo: era il culo al caldo in una situazione che con poca spesa e abbastanza retorica garantiva la permanenza in un club contestato ma comunque esclusivo e già per ciò solo preferibile. L’unità europea che Letta rivendicava contro le ambizioni disgregatrici dei russi non era un obiettivo da mantenere, era la condizione provvisoria che assolveva le sue scelte oltranziste.

 

 

 

E non appena il clima cambiato gli ha consentito di ripiegare verso predicazioni contraddittorie - un mezzo dovere della resa, per intendersi - eccolo ai suoi tipici spropositi provinciali, che in realtà non mettono nel nulla tre mesi di militanza pro-Ucraina ma ne denunciano la strumentalità che non vedeva solo chi non aveva occhi per vedere. Se l’andazzo prosegue, e sondaggi aiutando, tra poco il segretario del Pd spiegherà che Volodymyr Zelensky non vuole la pace.

 

 

 

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