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M5s, i nomi dei duri e puri in ginocchio per la deroga: perché per i grillini è la fine

Alessandro Giuli
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Non bisogna necessariamente essere dei sadici per ammirare lo spettacolo dei desperados pentastellati giunti al secondo mandato, tra Montecitorio e Palazzo Madama, in procinto di subire la ghigliottina autoimposta per statuto e alla quale Beppe Grillo pare non voler rinunciare. A maggior ragione dopo la scissione di Luigi Di Maio: il M5S non è più maggioranza in un Parlamento che dal 2023 avrà la metà degli scranni disponibili, per una legge fortissimamente voluta proprio dai grillini che nel frattempo hanno perso due terzi dei loro voti; e allora, sì, la situazione diventa tragicomica. Un conto sommario indica in 49 i parlamentari in scadenza rimasti fedeli alla ditta guidata (si fa per dire) da Giuseppe Conte.

 

LA MOSSA DI BEPPE
Oltretutto l'avvocato di Volturara Appula ha nel frattempo svestito la grisaglia con pochette per indossare i panni descamisadi dell'oppositore interno al governo di Mario Draghi. Il che, se la situazione dovesse precipitare sul piano inclinato d'una crisi con conseguente voto anticipato in autunno (improbabile), aggiungerebbe sciagura a sciagura: niente vitalizio per tutti e beffa doppia per la pattuglia dei biodegradabili privi della facoltà d'una terza chance nelle urne. A meno che... Ed eccoci all'arabesco ultimo cui s' è ridotta la parabola del Movimento che nelle premesse doveva aprire le Camere come scatolette di tonno.

Pare che Grillo stia meditando, non si sa con quale giustificazione, di escogitare una deroga per il 10 per cento dei non-aventi diritto. I fortunati sarebbero dunque cinque al massimo e fra costoro non dovrebbero mancare il presidente della Camera Roberto Fico (snoblesse oblige...), la vicepresidente del Senato Paola Taverna, l'ex reggente Vito Crimi e poi chissà... forse la ministra per Politiche giovanili Fabiana Dadone e il titolare dei Rapporti con il parlamento Federico D'Incà; oppure gli ex ministri Riccardo Fraccaro (predecessore del D'Incà nel Conte I, poi sottosegretario alla Presidenza del Consiglio nel Conte bis giallorosso) e Alfonso Bonafede.

Nomi che vorticano come animule vagule nel Purgatorio dell'indecidibilità, ai quali si aggiungono il ministro dell'Agricoltura Stefano Patuanelli e il sottosegretario all'Interno Carlo Sibilia. Nel maggio scorso era stato proprio Patuanelli ad aprire timidamente all'idea di rimettere in discussione la tagliola contro il terzo mandato, e a dire il vero c'è pur sempre quel precedente del "mandato zero" che dal 2019 ha consentito ai consiglieri comunali grillini di aggiungere un altro giro di roulette alla propria carriera.

 

Bisogna immaginarseli, perciò, gli aspiranti alla scialuppa di salvataggio, mandarini senza più mandato o gregari atterriti dall'obbligo imminente di tornare ad accoppiare il pranzo con la cena senza lo stipendio pubblico.

Prendiamo a esempio uno come Crimi, il fenotipo di quello che sembrava davvero avercela fatta, tanto da diventare reggente dei Cinque stelle salvo poi decadere per sentenza giudiziaria a beneficio di un imprecisato curatore speciale. Lui, il matematico mancato entrato in Senato nel 2013 dopo un vano tentativo di scalare la regione Lombardia e alle spalle simpatie per Rifondazione Comunista e Alleanza Nazionale ma pure Italia dei Valori, Verdi e Ulivo...

Per chi l'abbia dimenticato, fu lui il protagonista di una sconclusionata battaglia ai tempi della maggioranza gialloverde, quando faceva il sottosegretario alla presidenza del Consiglio con deleghe alle aree sismiche italiane e all'editoria e si mise appunto in testa di terremotare i pochi fondi pubblici ai giornali e rottamare nientemeno che Radio radicale. In quella circostanza il compianto Massimo Bordin cucì intorno a Crimi l'invalicabile definizione di «gerarca minore» che di lì in poi avrebbe soppiantato il più benevolo motteggio coniato dalla collega Roberta Lombardi: «Vito orsacchiotto Crimi». Si salverà, infine, il nostro orsetto minore?

QUANTI DUBBI
E che ne sarà della verace Taverna? Anche lei, invece di tornare all'impiego di segretaria con diploma di perito aziendale, probabilmente salirà sull'arca di Grillo in quota "sansepolcrista" in quanto militante della prima ora - accanto a Nicola Morra e Carlo Sibilia - dopo aver di recente postato (e poi in cancellato in lacrime) uno sfogo veemente contro l'Elevato («Il Movimento non è di tua proprietà!»). E alla simpatica Dadone, immortalata a suo tempo nell'ufficio ministeriale (Pubblica amministrazione nel Conte bis) con indosso la felpa dei Nirvana e le scarpe sulla scrivania, sarà consentito continuare nella marcia parlamentare per le magnifiche sorti e progressive di ciò che rimane della rivoluzione populista? Scarpe rosse, eppure bisogna andar... Come tanti altri, noti e meno noti, che in queste ore fremono di paura e sdegno, speranza e afflizione, in attesa che l'ex comico genovese decida che cosa fare del suo teatro ammezzato affidato nominalmente a un bispremier irriso come un giostraro ambulante nelle telefonate con il cinico e divertito Draghi.

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