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Gianni Zonin, il "Colombo del vino" e la svolta del prosecco

Matteo Legnani
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Alziamo i lieti calici. Una volta tanto le statistiche segnalano un primato italiano, primo esportatore di vino nel mondo. Ma, per chi se ne intende, il numero che conta è un altro: calano oltre confine le vendite in volume, ma aumenta il valore di bottiglie doc e docg. Bene così, ma non fermiamoci perché «la Francia esporta la metà il volume, ma fattura il doppio», ama sottolineare uno dei padri nobili del vino nostrano: Gianni Zonin, 56 vendemmie alle spalle, una vita tra i filari («ma non basta produrre vino di qualità - ammonisce - bisogna saperlo vendere»), leader dell'enologia made in Italy. Non solo e non tanto per il fatturato (152 milioni di euro a fine 2013 contro 140 a fine 2012) ma perché è stato il primo a uscire dai confini dei poderi sotto casa creando così una massa critica rilevante. Sotto questo profilo, la storia di Zonin rappresenta una case history affascinante, in un un momento particolare perché tra un anno il cavaliere, enologo prestato con successo all'arte della banca, cederà le leve operative del gruppo ai figli (Domenico, Francesco e Michele) riservando per sé il ruolo del pioniere prudente ma visionario il giusto. È lui che ha piantato le viti in Virginia, Usa, impresa già fallita ai tempi di Thomas Jefferson e mai più tentata fino al suo sbarco nel Nuovo Mondo. Oggi operano nella regione operano 275 aziende vinicole, tutte dotate di Bed & Breakfast per ospitare i turisti. Ma torniamo alle origini. Zonin, preso il diploma d'enologo a Conegliano e una laurea in giurisprudenza, succede allo zio Domenico alla guida dell'azienda di famiglia, trasformata in spa, nel 1967 a soli 29 anni. Allora la Zonin spa imbottigliava il vino comprato dai produttori. A quell'epoca, l'enologia non godeva di grande rispetto sociale. «Spesso mi capitava, quando mi presentavo, di sentir la battuta: ah lei è uno di quelli che per fare il vino usa anche l'uva...», dice Gianni. Per uscire da quella gabbia era necessario lavorare sulla qualità, entrare nella produzione in giro per l'Italia. Il grande strappo da zio Domenico avviene con l'acquisto , anno 1970, della tenuta di Ca' Bolani in Friuli. Sarà solo la prima di una lunga serie di acquisizioni di successo. Seguiranno l'Abbazia Monte Oliveto a San Gimignano e la maremmana Rocca di Montemassi; in Piemonte il Castello del Poggio in quel di Portacomaro, terra avita di papa Francesco e, poco più ad Oriente, la tenuta Il Bosco nell'Oltrepò pavese. Infine, dagli ultimi anni Novanta, il grande passo verso i vini dell'area mediterranea con il Feudo Principi di Butera in Sicilia e la pugliese Masseria Altemura. Una crescita ragionata, anno dopo anno, mercato dopo mercato, con alcune riscoperte (vedi il Nero d'Avola, tra le ultime) e il lancio a livello mondiale del prosecco, la punta di diamante per conquistare i mercati tradizionali e non. «Quest'anno - commenta con orgoglio - abbiamo dovuto fare i tre turni per soddisfare la domanda». Fino alle 45 milioni di bottiglie (erano 42 l'anno prima) per tre quarti vendute in più di cento Paesi, anche attraverso la Zonin Usa e la Zonin Uk. Il tutto dando lavoro a 830 dipendenti tra Gambellara, le società estere e le tenute del gruppo: 4 mila ettari di terreno in totale. Un trampolino da cui la nuova generazione dovrà spiccare il volo. Toccherà ai figli, a partire da Domenico (presidente dell'Unione Italiana Vini), rafforzare le basi per l'avanzata del made in Italy oltre frontiera, grazie al lavoro di squadra assieme agli altri produttori, imparando la lezione dei cugini che, ha osservato di recente, «sono sbarcati su quel mercato in gruppo, mentre noi l'abbiamo fatto in ordine sparso» . Ma anche con nuovo shopping, stavolta oltre confine. Nel solco di Gianni, enologo e banchiere che ama far shopping quando ce n'è l'opportunità (e il prezzo giusto). di Ugo Bertone  

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