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Pensioni, "assegno tagliato a chi vive di più": l'ultima tentata rapina

Sandro Iacometti
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Sei benestante e in buona salute? C’è poco da stare allegri, perché l’Inps ti darà una bella sforbiciata alla pensione. Può sembrare incredibile, ma è questa la brutale sintesi di un’analisi contenuta nell’ultima Relazione annuale dell’istituto di previdenza. Un tomo di circa 500 pagine la cui stesura, che verosimilmente ha richiesto mesi, porta ancora tracce evidenti della vecchia gestione dell’Inps, quella affidata al “grillino” Pasquale Tridico, sostituito alla fine dello scorso giugno dal commissario straordinario Micaela Gelera. Del resto, solo a qualche funzionario ispirato dall’ex presidente che ha ideato il reddito di cittadinanza poteva venire in mente di mettersi a discettare in un documento ufficiale di iniquità del sistema pensionistico legata al censo e alla longevità. Non ci credete?

Sentite qua. La tesi di partenza è che alcuni mestieri, e anche alcuni specifici settori, facciano campare di più. Un ex lavoratore dipendente nella fascia di reddito più bassa, secondo gli studi dell’Inps, ha una speranza di vita, a partire dall’età pensionabile di 67 anni, di circa 5 anni in meno rispetto a un manager a riposo. Fra gli uomini, il gruppo più longevo è quello dei pensionati delle gestioni Inpdai (dirigenti pubblici), Volo e Telefonici. E fin qui si tratta di analisi statistiche, che andrebbero comunque approfondite.

 


INGIUSTIZIA
Il vero problema sono le conclusioni, in cui si dice chiaramente che sono i soldi a fare la differenza e che questo genera una profonda ingiustizia del sistema pensionistico. «Queste differenze nella speranza di vita in base al reddito», si legge a pag 191 della relazione, «si scontrano con l’utilizzo di un coefficiente di trasformazione unico per il calcolo della pensione che risulta fortemente penalizzante per i soggetti meno abbienti il cui montante contributivo viene trasformato in una pensione più bassa di quella che otterrebbero se si tenesse conto della loro effettiva speranza di vita. Viceversa, i più abbienti ottengono pensioni più elevate di quelle che risulterebbero da tassi che tengono conto della effettiva durata media della loro vita». Insomma, questi ricconi oltre ad avere avuto fortuna nella vita lavorativa poi si beccano pure un assegno previdenziale più alto di quello che meritano.

Il concetto viene ribadito anche a pag 142: «La presenza di differenze così significative è problematica dal punto di vista dell’equità ed anche della solidarietà in quanto l’attuale sistema previdenziale applica al montante contributivo un tasso di trasformazione indifferenziato, che presuppone speranza di vita indifferenziata. Il non tener conto del fatto che i meno abbienti hanno una speranza di vita inferiore alla media risulta inevitabilmente nell’erogazione di una prestazione meno che equa a tutto vantaggio dei più abbienti». Per quanto assurdo possa già sembrare il concetto, c’è dell’altro. Già, perché la longevità non è solo condizionata dallo stipendio (avviso ai ricchi: possono anche fumare mille sigarette al giorno e tracannarsi qualche litro di grappa senza preoccupazioni), ma anche dalla località di residenza. Eh sì, perché chi vive in Campania nella fascia più bassa di reddito ha una speranza di vita di quasi 4 anni inferiore a chi vive in Trentino-Alto Adige con un reddito alto. In altre parole, anche il luogo in cui scegliete di vivere potrebbe penalizzarvi. Se avete il portafoglio pieno e vivete al Sud, il numerino che fa diventare i contributi versati durante l’attività lavorativa in un assegno mensile vitalizio (il coefficiente di trasformazione), dovrebbe, secondo l’Inps essere solo limato per ottenere l’equità del sistema. Ma se vi prendete il rischio di andare ad abitare in un luogo salubre, magari in alta montagna, la sforbiciata sarà assai più consistente.

 


LA SMENTITA
Una follia che resterà ad impolverarsi su uno scaffale dell’Inps insieme alle copie del rapporto annuale? Non proprio. Secondo il Messaggero si tratta di un piano di lavoro che finirà nel cantiere della riforma previdenziale. Prospettiva che ha fatto saltare sulla sedia non solo lavoratori e pensionati, ma anche l’Istituto e lo stesso governo. «I dati raccolti dall’Inps», si legge in una nota, «possono rappresentare una risorsa per l'elaborazione di scelte politiche e amministrative, ma non è nei compiti dell'Istituto fare proposte al legislatore». Anche il ministro del Lavoro Marina Calderone fa sapere a Libero che «l’Inps fra i suoi scopi non ha quello di presentare proposte di riforme che spettano al decisore politico con cui l’Istituto collabora per fornire proiezioni su possibili interventi legislativi». Quanto all’ipotesi «di pensioni più basse per coloro che sono più longevi, nello specifico, non è oggetto di discussione in sede politica». Caso chiuso? Possiamo solo sperare di sì. 

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